“La Svizzera è l’antitesi della costruzione europea”

UE, Regno Unito e Svizzera (titolo originale)

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Dopo la débâcle – io non sono particolarmente impressionabile ma che botta! – ascoltiamo la voce del maître-à-penser (che non si scompone). Sarebbe interessante conoscere la sua opinione sull’ultima domenica di novembre (magari ce la dirà).

Quanto alla Brexit, io penso che sia una delle migliori chance della destra. Forza, tifiamo Brexit. (fdm)

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Ho avuto l’opportunità di partecipare in settembre ed ottobre a due incontri tra un ristretto numero di parlamentari e alcune altre personalità inglesi e svizzere. Tema: discussione sulle esperienze dei due Paesi nei rapporti con l’UE (Unione europea). Vi sono similitudini e chiare differenze. Una di queste è data dal fatto che il Regno Unito è membro dell’UE e ne vuole uscire, noi svizzeri invece non ne facciamo parte e intendiamo solo regolare i nostri rapporti economici. Per gli inglesi i lacci procedurali dell’articolo 50 del Trattato di Lisbona e lo scioglimento di innumeri rapporti (l’acquis communautaire avrà circa 200.000 pagine) entro scadenze fisse: il 29 marzo 2019 e il 31 dicembre 2020. Noi svizzeri godiamo dell’elasticità di un negoziato tra due enti indipendenti, anche se di diversa potenza, e non dobbiamo rispettare alcuna scadenza.

Le similitudini per contro sono nel DNA incompatibile con l’UE di entrambi i Paesi. La Svizzera è l’antitesi della costruzione europea: noi strutturati dal basso (Comuni) verso l’alto (autorità federali), retti istituzionalmente dalla democrazia diretta, federalisti e con ampio ricorso alla sussidiarietà. L’UE l’esatto contrario con deficit democratico riconosciuto.

Simile nei due Paesi anche la debolezza dei due Governi nelle trattative con Bruxelles, entrambi condizionati da una profonda divisione interna sul tema Europa. Da un lato la classe dirigente: molti politici, burocrati, associazioni economiche che rappresentano interessi multinazionali e pertanto apolidi. Un establishment che parla la stessa lingua e spesso ragiona come Bruxelles, pauroso di situazioni nuove con le sue incognite e possibile perdita di potere. Governi timorosi e quindi incapaci di assumersi il rischio di una posizione negoziale determinata con conseguenti ondeggiamenti irritanti tra linee rosse e meno rosse. La classica posizione di chi è destinato a uscire sconfitto dalle trattative.

Nel contempo l’autorevole «Financial Times» un giorno sì e l’altro sì impaurisce l’opinione pubblica paventando conseguenze negative della Brexit, specie se non accompagnata da un accordo ragionevole. È la stessa tattica seguita dall’altrettanto autorevole NZZ da noi in Svizzera. Rappresentano l’establishment dei rispettivi Paesi con competenza ed intelligenza ma forse non hanno ancora sensibilizzato i messaggi delle recenti elezioni nelle diverse nazioni europee. Nel frattempo le pesanti negatività che il voto degli inglesi favorevoli alla Brexit avrebbe dovuto causare non si sono ancora viste. Gli indici economici sono piuttosto positivi, la disoccupazione è al minimo e tolta la debolezza della sterlina (che ha anche vantaggi per l’esportazione) finora la Brexit è un «non event».

Si afferma che la City di Londra verrà messa in crisi, perderà il suo ruolo. Non lo so, ma ricordo che al tempo dell’annessione di Hong Kong alla Cina (1997) ormai tutti davano per finita la sua piazza finanziaria sostituita da Shanghai. Sono passati 21 anni e Hong Kong è sempre al primo posto in Asia. Una piazza finanziaria è il risultato della concentrazione di competenze, cervelli, creatività, acume affaristico, relazioni e fiducia tra gli operatori che si ottiene sull’arco di tempi lunghi e non si cancella con un tratto di penna governativo.

Per attirare a Parigi i criticati banchieri d’affari la Francia propone accordi fiscali, esenzione sugli utili in capitale e altro, che se offerti da noi porterebbero la Svizzera su una delle solite liste nere. La Germania è pronta a cambiare il suo codice di protezione dei lavoratori e la proposta di legge verrà esaminata prossimamente dal Parlamento. Non penso che questo zelo sospetto basti.

I sostenitori della Brexit non escludono che a corto termine ci possano essere dei contraccolpi ma la loro è una visione a lungo termine, vogliono un’Inghilterra libera dai lacci burocratici dell’UE, libera di fissare le proprie regole, non legata ai destini di una realtà internamente divisa, appesantita dall’incapacità di agire e che potrebbe anche implodere per i debiti di alcuni suoi membri.

Le considerazioni che ho ascoltato mi hanno fatto comprendere anche le ragioni della frattura (simile a quella svizzera) nel Paese. L’orizzonte temporale dei politici è limitato alle scadenze elettorali, peggio ancora quello dell’economia è spesso condizionato dal resoconto trimestrale, il tutto nella condivisione di un mondo regolato da strutture internazionali e dalla tecnocrazia.

I sostenitori della Brexit per contro ragionano sui tempi lunghi, in termini di generazione, sono pronti ad avere periodi di transizioni difficili, convinti che meno regole, meno tasse, tassi di cambio che aiutino l’esportazione, in una parola la capacità di competere nel mondo, darà loro un migliore futuro economico. Oltre a ciò, senza dover cedere, senza compenso, il «brand» UK e rinunciare all’orgoglio di essere inglesi.

Sono convinti di aver fatto un errore entrando nell’Unione europea nel 1973. Ritenevano di essere capaci di opporsi al duopolio franco-tedesco e limitare l’Europa ad un utile grande mercato comune evitando l’evoluzione in una pesante struttura politica. Si sono sbagliati ed ora sono pronti a pagare – se necessario – lo scotto per riprendersi l’autonomia. Riusciranno nei loro intenti? Non lo so, ma li capisco.

Tito Tettamanti

Pubblicato nel CdT e riproposto con il consenso dell’Autore e della testata