“Un capovolgimento radicale nella politica dell’immigrazione”

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Ho letto attentamente l’articolo, che nella sua autorevolezza conferma la mia opinione ormai acquisita. Il “Patto globale” è sostanzialmente un inganno. Esso non è destinatato a “regolare” le migrazioni, ma a facilitarle e ad aumentarle.

Ci viene proposto come “soft law” ma alla fine qualcuno immancabilmente dirà: “Guardate che cosa avete firmato!”

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Nei media ed in Parlamento si dibatte sul «Patto globale per una migrazione sicura, ordinata e regolare». Mi sono preso la briga di leggere le 34 pagine di (volutamente?) complicato burocratese. Non posso che condividere il giudizio – vedi ad esempio NZZ – di chi considera che si tratti di un capovolgimento radicale nella politica dell’immigrazione. Per rendere l’idea, ormai si entrerà senza bussare. Poi si viene blanditi con l’affermazione che non è vero e non importa, perché a casa propria ognuno fa quello che vuole e può anche sprangare porte e finestre, visto che il patto non è legalmente vincolante. Domanda ingenua: ma se ognuno a casa propria può fare quel che vuole, perché firmare un patto comune?

Tito Tettamanti con Marcello Foa, fotografato a Chiasso

Il Consiglio federale dimostrando un incredibile senso della comicità ci dice che il patto è legalmente non vincolante ma politicamente impegnativo. Impegnati ad esempio a sostenere le feste gastronomiche dei migranti (punto 32h), ma anche a togliere sostegni e contributi a quei media ritenuti «intolleranti e razzisti», vale a dire che la pensano differentemente sull’immigrazione (punto 33c). La tecnocrazia mondialista non ammette la diversità d’opinione neppure sui patti non vincolanti.

Sappiamo il peso delle pressioni internazionali (specie per le nazioni piccole e serie) e l’appoggio dato da noi a queste pressioni da forze politiche e ONG nel legittimo dibattito democratico.

Levrat, presidente del PS, si schiera per la firma senza obiezioni. Comprensibile segno di coerenza, non dimentichiamo l’Internazionale socialista. Lo dovrebbe però preoccupare la scelta mondialista delle forze di sinistra europee, che ha portato a dimenticare i più immediati problemi della classe operaia con le conseguenti pesanti perdite elettorali.

Il patto non va firmato non per i suoi discutibili dettagli, dimenticando un opinabile senso dell’opportunità per la tempestività, ma perché non è la soluzione vera al problema della povertà all’origine dell’ondata migratoria. È l’espressione di un’allarmante superficialità e di una ingenua pericolosa schematicità da geometra. Dato che ci sono Paesi poveri ad alta natalità e disoccupazione e Paesi ricchi a bassa natalità e bassa (relativamente) disoccupazione travasiamo ingegneristicamente parte della popolazione dagli uni agli altri. I primi diventeranno meno poveri, gli altri un po’ meno ricchi. Errore di fondo. Innanzitutto non è con l’emigrazione di un paio di centinaia di milioni di persone ad esempio dall’Africa (oggi un miliardo e cento milioni d’abitanti che raddoppieranno entro il 2050) che la situazione muterà. Le radici della povertà degli africani risiedono nell’endemica corruzione, nei regimi tribali, nello sfruttamento e nella schiavizzazione, nelle rivalità e guerre tra etnie. Facilitare la migrazione non è la soluzione. L’esodo dei giovani della classe media priva il Paese di coloro che dovrebbero assicurarne lo sviluppo condannandoli ad una vita da disoccupato, assistito e sradicato in altre nazioni.

Mentre la partenza anche di 200 milioni di africani non risolve i problemi del vasto continente, rappresenta per contro un aumento del 40% della popolazione europea, con un impatto devastante.

L’aiuto, indispensabile e urgente per rispondere alla drammatica situazione, va operato in loco. E qui andrebbe fatta un’impietosa severa analisi dell’insuccesso della Banca mondiale che nei decenni ha investito (sperperato) migliaia di miliardi.

Con un approccio pesantemente burocratico ha canalizzato il rapporto praticamente in esclusiva con le burocrazie dei Paesi emergenti, burocrazie inette, corrotte e dirette da capi di Stato cleptocrati ma che per ragioni politiche non venivano messi in discussione. Non dimentichiamo il grido di quella giovane attivista kenyota: «Non mandate i soldi al nostro governo corrotto, distribuite telefonini tra la popolazione». L’evoluzione delle civiltà si misura sui secoli, accompagnata da sofferenze e insuccessi, ma non può venir imposta dall’esterno ignorando culture, costumi e storia.

Ciò non deve però giustificare l’inattività. Una delle componenti dell’evoluzione è lo sviluppo economico. La rivoluzione industriale ha sconfitto la terribile miseria europea. Deng Xiaoping ha tolto dalla povertà alcune centinaia di milioni di cinesi grazie alla coraggiosa iniziativa delle zone economiche autonome. Non dando il pesce ma insegnando e lasciando pescare si è attuata la trasformazione economica della Cina.

Simili zone, con la collaborazione di imprenditori occidentali responsabili e la protezione politica dell’ONU, non potrebbero essere di ausilio? Creazione di città satellite per evitare gli affollamenti nelle ipertrofiche megalopoli non solo africane, opportunità di scuole di apprendisti sostenute da industrie occidentali, diffuso sostegno a piccoli prestiti diretti per iniziative imprenditoriali e molto altro. Le soluzioni sono difficilissime da individuare, esperimentare, concretizzare in una realtà estremamente complessa, ma ciò non esime dall’impegnarsi ad affrontare il vero problema che è nei Paesi emergenti e non viene risolto con qualche centinaio di milioni di emigranti portatori loro malgrado di frizioni con i poveri di Paesi ricchi. È troppo comodo firmare dichiarazioni buoniste, ma inadeguate, per mettersi il cuore in pace.

Tito Tettamanti

Pubblicato nel CdT e riproposto con il consenso dell’Autore e della testata