di Tito Tettamanti

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All’articolo, come sempre impeccabile, dell’Avvocato, mi permetto di anteporre un’unica personale osservazione di attualità. Il “teatrino” del Partito socialista sull’Accordo quadro sembra che stia volgendo al termine. Alla fine, immancabile, arriverà il Sì, condito di molte circonlocuzioni giustificatorie, polvere per gli orbi.

La battaglia per l’indipendenza e la sovranità della Svizzera promette di essere dura, durissima. Sudore, lacrime e sangue.

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Mentre il fronte di coloro che si oppongono all’Accordo quadro con l’UE è coeso, quello dei favorevoli è costituito da una pluralità di «sì, ma». Le ragioni di un simile atteggiamento che permette di non dire no, ma ciononostante di non essere d’accordo completamente, sono strategiche e tattiche. Strategiche per coloro che capiscono che l’accordo non è accettabile dalla maggioranza degli elettori ma cercano di mantenere in vita quell’equivoca situazione nata nel 1992 quando il Consiglio federale ha avuto la malaugurata idea di presentare domanda d’adesione all’UE. Più in là nel tempo, indorata un po’ la pillola con qualche equivoca frase di diplomatichese, anche il «ma» verrà (pseudo) risolto e continuerà la politica di avvicinamento all’UE.

«Ma» tattico, per contro, per i dirigenti di quei partiti che avendo a ragione paura di irritare gli elettori e pensando alle elezioni di ottobre vogliono solo guadagnare tempo.

Alla testa dei «sì, ma» vi è Economiesuisse, l’associazione mantello della nostra economia (assecondata dall’autorevole NZZ e dalla lobbistica Avenir Suisse) che, a corto di altri argomenti, motiva la necessità di giungere ad un accordo con Bruxelles con lo spauracchio dei pesanti danni di una mancata firma. Il presidente di Economiesuisse ha stimato tali costi tra i 20 ed i 30 miliardi di franchi annui.

La cifra indicata per il possibile danno economico è desunta dagli studi BAK ed Ecoplan del 2015 che cercavano di dare un valore ai sette bilaterali in atto (l’accordo quadro ne concerne solo cinque). Nel marzo del 2016 il giornalista economico Florian Schwab pubblicava sullo «SchweizerMonat» un’analisi critica degli studi citati. Sintetizzando l’analisi, una quantificazione delle conseguenze economiche dell’abolizione degli accordi di libero scambio è una mission impossible perché dipende da ipotesi di lavoro soggettive e opinabili e anche una modesta correzione nell’arco fissato dei vent’anni può portare a importanti differenze nel risultato. Inoltre, gli studi hanno ignorato l’impatto di possibili misure di difesa messe in atto dalla Svizzera.

L’utilizzo degli studi è anche scorretto perché la mancata firma dell’Accordo quadro non comporta l’immediata caduta dei Bilaterali, che anzi per ammissione stessa della direttrice di Economiesuisse Monika Rühl resteranno in vigore per alcuni (forse diversi) anni. Oltretutto è pericoloso dare un valore di certezza ai risultati tenendo conto delle innumeri imprevedibili variabili possibili sull’arco dei vent’anni. Dal 2015 a oggi abbiamo avuto la Brexit (e accordi tra Svizzera e Inghilterra per il dopo Brexit), l’elezione di Trump, la guerra dei dazi tra USA e Cina, la disdetta delle trattative con l’Iran, il motore economico germanico sembra dar segni di stanchezza, l’Italia è in recessione e la Francia in conflitto con i gilets jaunes. Tutto ciò e altro non ha impatto anche sulle attività economiche della Svizzera e dell’UE? Entrambi i contendenti dovrebbero ammettere che stime attendibili sono impossibili, evitando di basarsi su cifre di fatua consistenza. Per il bilaterale sul traffico aereo uno studio calcola il costo in 440 milioni di franchi per l’anno 2014, l’altro stima i costi a 130 miliardi cumulativamente per il periodo 2018-2030. Cosa scegliamo?

Economiesuisse enfatizza anche i danni nel caso dell’abolizione del bilaterale concernente gli ostacoli commerciali che i due studi valutano uno a 144 milioni e l’altro a 350 milioni annui. Qui le basi di calcolo sono più solide, ma non sembra che le conseguenze siano drammatiche per l’economia svizzera.

Pare che la più colpita sarebbe l’industria farmaceutica, vediamo quanto duramente. Se prendiamo Novartis e Roche, esse hanno assieme un valore di borsa di oltre 470 miliardi di franchi e nel 2018 una cifra d’affari annua di 110 miliardi e un utile di 20 miliardi. Ora, anche se addebitassimo l’intero costo previsto alle sole due ditte, avremmo un ipotetico minuscolo danno attorno all’1%. Dobbiamo preoccuparci per le sorti della farmaceutica svizzera?

In Svizzera notevoli sono i valori dei marchi. Quello di Nestlé è valutato a 20 miliardi di dollari, quello di UBS a 10, Roche a 7. Ma non è che i valori di questi marchi siano così elevati anche perché approfittano e sono sorretti dal marchio Svizzera (basato su democrazia diretta, federalismo, neutralità, equilibrati regimi fiscali e sociali, finanze sane)? Siamo molto preoccupati che le nostre multinazionali incorrano in costi modesti per non dire trascurabili, ma sembriamo indifferenti alla svendita del marchio Svizzera quasi non ci rendessimo conto che un indebolimento di quest’ultimo si rifletterebbe sulle diverse aziende.

La direttrice Rühl è preoccupata: cadendo il bilaterale per il traffico autostradale i nostri trasportatori non potrebbero più fruire del grande cabotaggio (trasporto di merce tra singoli Paesi UE). È il solito strabismo che dimentica che anche solo rallentando il traffico di camion dal Gottardo (circa 700.000) intaseremmo Brennero e Gran San Bernardo e ciò indurrebbe non solo i Paesi confinanti a più miti consigli.

Arnold J. Toynbee nel suo magistrale studio delle 21 civiltà che hanno scritto la storia del mondo si è chiesto cosa ha permesso a certi popoli di dominare ed è arrivato alla conclusione: la voglia di vincere. L’impressione è che l’establishment svizzero abbia perso persino la voglia di difendersi.

Pubblicato nel CdT e riproposto con il consenso dell’Autore e della testata.