di Vittorio Volpi

Ho letto con grande soddisfazione un saggio di Germano Dottori sul Presidente americano dal titolo “La visione di Trump: obiettivi e nuove strategie della nuova America”.

Foto Wiki commons (Gage Skidmore, Peoria)

Finalmente una versione onesta, chiara e documentata di un leader importantissimo in questo momento, la cui narrativa dataci dalla maggioranza dei media internazionali è di un politico rozzo, ignorante, volubile e senza visioni per il futuro. Un’immagine caricaturale. Trump sarebbe anche un leader eletto casualmente e apparso da chissà dove, totalmente impreparato per il delicato compito da assolvere.

In realtà Trump non è un ricco stupido. Ha studiato per bene, compagno di studi a un certo punto con il governatore della Banca d’Italia Visco. Il suo curriculum, anche politico, sottolinea che l’uomo non è quel rozzo ed incompetente che le narrative nostrane in genere dipingono.

Questo è precisamente l’angolo della visuale che viene privilegiato del saggio; dove si intende dimostrare, inter alia, che l’elezione di Donald Trump non sia stato un incidente fortuito, ma al contrario, una tappa probabilmente fondamentale di un cammino comunque complesso negli Usa che è iniziato all’indomani stesso della caduta del Muro di Berlino. Processo che è destinato quasi certamente a proseguire nei prossimi anni, magari con altri interpreti meno ruvidi e più sofisticati del Tycoon.

A spiegarne la vittoria sono anche i grandi investimenti elettorali, con una campagna iniziata su temi comprensibili. In primis “America first”. Un sostegno massimo a sviluppare business negli Stati Uniti. Smettere di disperdere dollari a destra e a manca in giro per il mondo, ma concentrarsi sul concetto di “essere forti e temuti”. Quindi, accordi bilaterali. La Nato se la paghino gli europei, dazi e negoziazioni per ridare impulso all’economia e continuare nella politica estera dove gli USA non vogliono più essere nel “driving seat”, ma bensì nel “back seat”; cioè dominare la politica estera mondiale, ma senza essere più attori in prima fila.

Il primo punto nella strategia per essere eletto è stato di politica internazionale. La fine di un’epoca in cui gli Stati Uniti avevano il ruolo di poliziotti del mondo. Come scrive R. Kagan nel suo libro (America First has won ). “Ed ora abbiamo Trump!…Forse dovrebbero iniziare ad affrontare il fatto che ciò che vediamo non è uno spasmo, ma una nuova direzione della politica estera americana, o piuttosto, un ritorno a tradizioni più antiche”. E come aggiunge il Senatore R.Paul “per la prima volta da sempre abbiamo un Presidente che si occupa dei nostri confini più che delle frontiere di qualche terra dimenticata a migliaia di miglia dall’America”.

Sostiene l’autore che Trump non è un “deviazionista”, bensì un seguace di un percorso incominciato negli anni ’90 ed interrotto solo da George W. Bush a seguito della tragedia delle Torri Gemelle.

C’è un capitolo intitolato “gemelli diversi” riferito ad Obama. Si sottolinea al riguardo che le politiche di Obama e Trump “forse dovrebbero essere lette come due momenti diversi dello stesso mutamento di paradigma. La strategia di Obama, al netto delle incrostazioni ideologiche si basava su 3 principi:

1. la ricerca della pace con l’Islam  2. Accettare la instabilità alle periferie dell’Euroasia e mitigare le ambizioni europee 3. Contenimento congiunto di Cina e Russia (vedi TPP ad esempio).

Il tutto in salsa “opaca”, al contrario del Tycoon, plateale e super comunicativo.

Trump ha riveduto la politica di contenimento tentando di sganciare Mosca da Pechino, purtroppo le complicazioni dell’hackeraggio russo per le elezioni hanno ingarbugliato le cose. Ma, se rieletto, ci riproverà.

Nel volume si sostiene ad esempio che Obama, passato in sordina durante il suo mandato, ha espulso 3 milioni di immigrati (non ce lo dice nessuno!) e che “il muro” con il Messico è iniziato negli anni ’90 con Clinton..

La novità lungo il percorso di Trump è il suo impegno a ridurre gli impegni militari all’estero. Con lui quindi è aumentato il ricorso all’autolimitazione della propria potenza militare. È una scelta coerente rispetto al pensiero che si è strutturato nel tempo. Una ridefinizione del ruolo dell’America nel mondo: “leading from behind”, leader certo, ma non in prima linea. Questo orientamento è visto da molti, erroneamente, come una perdita di gravità e conseguente declino dell’America, ma non è così.

Bisogna capire il nuovo corso. Rivedendo la storia americana, Trump sembra rifarsi a Jackson (1767-1845): nazionalismo incline all’isolamento.

Insomma, sostiene giustamente Germano Dottori, smettiamola con la caricatura fumettistica su Trump. È sì un leader, con uno stile comunicativo brutale e per la inconsueta trasparenza rispetto allo standard, ma ignorante e fesso, proprio no!