Wikimedia commons (Arno Mikkor)

“Il ragazzo che voleva diventare il re del mondo”, così si intitola un recente documentario della Bbc News, sulla biografia di Boris Johnson. Secondo la sorella Rachel, anche lei giornalista, sono queste le parole che sentiva dire spesso al piccolo Boris. Ambizioso, narcisista, istrione, imprevedibilmente intuitivo e inguaribilmente ottimista, gran gaffeur, assolutamente politically incorrect. Questo è il profilo di Boris e la chiave del suo immediato successo.

Figlio di uno dei primi alti funzionari inglesi presso la Commissione Europea e di una pittrice (da cui ne ha ereditato l’arte), è nato a New York, quando il padre, prima del suo incarico nella Comunità Europea, lavorava alla Banca Mondiale.

Il bisnonno paterno, Ali Kemal, giornalista liberale, fu ministro dell’Impero Ottomano e membro della delegazione diplomatica alla Conferenza di Parigi del 1919. Venne ucciso nel 1922, dai Giovani Turchi, durante la guerra d’indipendenza. In uno dei suoi frequenti viaggi in Svizzera, verso i primi del novecento, incontrò e sposo Winifred Johnson, di nazionalità anglo-svizzera, da cui il figlio, Wilfred, (nonno di Boris), naturalizzato inglese, prese il cognome.

All’origine del suffisso de Pfeffel, invece,  vi è la nonna tedesca del padre di Boris, Stanley Johnson, la baronessa bavarese, Marie Louise Von Pfeffel, figlia di  mamma francese, Héléne Arnous-Rivière e discedente, dal lato paterno, dello scrittore tedesco Gottlieb Konrad Pfeffel, i cui testi furono messi in musica da Beethoven, Haydn e Schubert.

La mamma di Boris, Charlotte Johnson Wahl, nata Fawcett, pittrice, è figlia di James Fawcett, che fu avvocato di fama e presidente della Commissione Europea per i Diritti dell’Uomo, dal 1972 al 1981. La famiglia Fawcett è nota in Inghilterra, per aver fondato a Londra, nel 1866 (grazie alla prima suffragista, Millicent Garrett Fawcett) la Fawcett Society, la prima organizzazione per il suffragio femminile.

Il nonno materno di Charlotte, Elias Avery Loew (il cui cognome fu tramutato poi in Lowe), era un paleontologo e codicologo russo di origini ebraiche, naturalizzato americano e convertito al cattolicesimo. Fu docente a Oxford e a Princeton. Studioso di codicologia, lasciò ai posteri, il Codices Latini Antiquories, la prima e più completa catalogazione di tutti i manoscritti latini antecedenti il nono secolo d.c.

Un “one man melting pot” si definisce quindi Boris, guardando alle sue origini, secondo le parole del suo amico e collega giornalista, prima al Daily Telegraph e poi allo Spectator, Nicholas Farrel, che ne ha fatto recentemente, un interessante ritratto, in un articolo apparso su Panorama.

Studente a Eton (è il ventesimo old etonian, a diventare primo ministro) e laureato a Oxford in lettere classiche, oltre che presidente della prestigiosa Oxford Union, Boris inizia la sua carriera nel giornalismo, prima come stagista al Times e poi come corrispondente da Bruxelles, del Daily Telegraph. Sono noti i suoi articoli sarcastici e un po’ esagerati, sugli euroburocrati e sulle bizzarie normative di Bruxelles. Finisce per dirigere il noto settimanale della destra inglese, The Spectator, fino a quando non viene eletto deputato conservatore al parlamento britannico, suggellando l’ascesa della sua carriera politica.

Ma veniamo all’attualità. L’ultima decisione inaspettata di Boris Johnson di congelare con la prorogation, l’attività delle camere, dal 10 settembre al 14 ottobre (giorno del Queen’s Speech), sembra rappresentare un oltraggio alla tradizione parlamentare inglese. In realtà non è così. Come ci ricorda Daniel Johnson, politologo ed ex penna del Times, sulle pagine del The Article, con un articolo dal titolo “ Has Boris suspended Parliament? And if so, so what? Non è la prima volta che questo accade. L’anno scorso, il parlamento è rimasto fermo per altri motivi, per più di due settimane, dal 13 settembre al 9 ottobre e nel passato, non sono rarissimi i casi in cui questo avvenne, da John Major nel 1997 a Clement Atllee nel 1948.

Brevi prorogations, avvengono sempre in occasione dell’insediamento di un nuovo governo,  per preparare il testo del “discorso della Regina”, con cui l’esecutivo descrive il suo programma. Nel 2016, la sospensione dell’attività parlametare fu di 4 giorni, nel 2014, di 13. La procedura prevede che sia il governo a chiedere al sovrano di sospendere il Parlamento. In teoria, spetterebbe alla regina decidere se farlo (perché rientra nelle prerogative reali), ma in realtà, è solo una formalità, perché i sovrani, per consuetudine, accordano sempre al governo, la sospensione.

In questa occasione, anomala per certi versi, ma in un momento storico cruciale per il Regno Unito, con una crisi politica e nazionale simile al maggio del 1940, quando Churcill dovette combattere l’appeasement della classe poltica britannica nei confronti di Hitler, il Premier desidera avere il tempo per riavviare le trattive con Bruxelles, prima del Consiglio europeo del 17 ottobre e  senza che il parlamento gli si metta di traverso, chiedendo altre dilazioni.

Il suo obiettivo è alzare la posta (vedi la dichiarazione di non pagare più a Bruxelles, i 39 miliardi di sterline dovuti). Nel suo intento, con o senza accordo, si esce comunque, aumentando i rischi, ma anche il potere contrattuale.

Et après ça, le déluge? Dopo il 31 ottobre (Halloween), il diluvio? Forse no. Il  segreto e catastrofico rapporto governativo Yellow Hammer, Zigolo Giallo, pubblicato dal Times, non sembra verosimile, secondo alcuni osservatori, tra cui Robin Niblett, già special adviser della commisione esteri della Camera dei Comuni e membro del World Economic Forum, direttore di Chatham House, il think tank vicino al Foreign Office. Con un’analisi dal titolo “Johnson Plan Just Might Work”, Niblett ci dice che il piano di Boris Johnson, sebbene avventato, potrebbe funzionare. E’ inoltre inverosimile, che all’indomani della Brexit, non si trovi un accordo di emergenza, per un tempo di attesa di circa un anno, che dia la possibilità alle parti, di preparare un nuovo trattato di libero scambio.

Secondo alcuni analisti economici, lontani dal mainstream del Fondo Monetario Internazionale, che vede l’economia britannica lasciare sul tappeto, in caso di no deal, un -3,5% di pil (secondo l’analisi contenuta nel World Economic Outlook di aprile), lo scanario post brexit, potrebbe non esser così catastrofico, se la Bank of England decidesse di contrastare lo shock finanziario, con un QE di draghiana memoria. Il governo inoltre, potrebbe mettere in atto misure fiscali in grado di stimolare l’economia, abbasando l’Iva e altre aliquote.

L’economia britannica, nel frattempo, non se la passa malissimo. Sebbene in rallentamento nel secondo quadrimestre (-0,2, dovuto anche alla congiuntura internazionale e all’incertezza sui dazi), non può dirsi ancora in recessione tecnica. Dovremmmo aspettare i risultati dell’ultimo quadrimestre. La disoccupazione viaggia ai minimi da dieci anni (4%) e i salari sono in aumento. Il Regno Unito potrà fare più deficit dell’Europa e ha la garanzia, nonché il cuscinetto, di una  una banca centrale autonoma.

Detto questo,  i rischi  permangono. Oltre ai temi caldi della secessione scozzese e gallese e il tanto discusso confine tra L’Ulster e l’Irlanda, l’alchimista Boris Johnson, malgrado il suo background culturale, potrebbe oltrepassare la soglia del non ritorno,  e  come sostiene un noto storico e politogo della Queen Mary University di Londra, Peter Hennesy, potrebbe essere vittima del proprio narcisismo,  inalando il proprio mito, prima di averlo costruito.

Friedrich Magnani