Foto Wiki commons (Studio Incendo)

Non sembra quietarsi la protesta di Hong Kong dopo gli “80 giorni di rabbia”. Anzi, a partire da oggi sono previsti due giorni di sciopero generale, proprio in un periodo molto delicato per la Cina, il 1° ottobre infatti celebrano la festa della Repubblica, una data inquietante dietro l’angolo.

E Xi Jinping, a giudicare dalla propaganda sui giornali di Pechino, non è il leader disposto ad accettare Hong Kong in rivolta, nella ricorrenza della celebrazione dell’unità nazionale, che pose fine al secolo dell’umiliazione del paese e vide l’avvento al potere comunista.

Le conseguenze di questa prolungata protesta rischiano di causare danni immensi all’economia della regione a statuto speciale ed anche alla Cina stessa. Con la crisi della formula “un paese due sistemi” si sta inceppando anche il tradizionale meccanismo di “laissez faire” che ha sin qui contraddistinto Hong Kong.

L’aeroporto, il terzo al mondo per intensità di traffico, è in difficoltà. Anche se gli aerei volano – regolari o ad intermittenza – molti passeggeri evitano lo scalo di Hong Kong a causa dei blocchi, sia stradali che delle metropolitane, (oltre al pericolo di scontri fra polizia e ribelli ) che impediscono o come minimo complicano l’arrivo in aeroporto; con ovvie ripercussioni.

Non si parla di cose minime: sono stati sparati dalla polizia oltre 2 mila candelotti lacrimogeni, pallottole di gomma, usati cannoni ad acqua, caricati con violenza i protestanti che ora rischiano di essere tutti identificati durante le fughe e ripiegamenti perché l’acqua gettata su di loro è ora colorata di blu e come detto, la polizia non si è astenuta da cariche violente e si tratta comunque di 30 mila unità mobilitate nel territorio.

Deng Xiaoping aveva promesso più di 30 anni fa che “i titoli in borsa sarebbero rimasti in crescita, i cavalli avrebbero continuato a correre all’ippodromo” (un classico per la ex colonia inglese), insomma, nulla sarebbe cambiato. Deng ipotizzava che nel 2047, allorché sarà tutto “un paese”, Cina ed Hong Kong sarebbero state allo stesso livello. Democrazia e mercato insieme.

L’avvento di Xi Jinping ha cambiato le carte in tavola. Il suo modello, forse non più a ideologia comunista, come sostengono alcuni sinologi, ma più autoritario del passato, non sembrerebbe poter accettare il capitalismo di Hong Kong. Che è diventato nel frattempo centro finanziario di levatura mondiale, dove operano i maggiori “tycoons” capitalisti che hanno sempre strizzato l’occhio a Pechino. Questi miliardari, tranne poche eccezioni, non sono certamente felici della protesta che li danneggia, ma finora non si sono pronunciati o schierati (il che vuol dire essere allineati con Pechino).

L’indice PSBA che segnalerebbe l’appetito del business di Hong Kong, evidenzia la scarsa adrenalina. La Borsa ha già pagato un forte prezzo e se le cose dovessero continuare sarà anche peggio.

I nodi al pettine sono parecchi: in primis Pechino ha commesso un grave errore non facendo ritirare velocemente la proposta di legge del governo, guidato da Carrie Lam, in merito all’estradizione a Pechino per alcuni reati (soprattutto politici). Ora è tardi.

Il secondo, è che mentre nel 2014 la protesta di 79 giorni si spense, ma aveva una certa leadership, questa volta la “protesta liquida” (si spostano a sorpresa) è un coacervo di “cani sciolti”. È poco credibile che sia eterodiretta o finanziata dall’esterno, come si sostiene a Pechino, ed è certo che non ha una sintesi di leadership.

Il problema per Pechino è che non c’è un interlocutore: tenendo anche conto che centinaia dei dimostranti più accesi sono in carcere e rischiano fino a 10 anni di prigione per sovversione.

Quindi il rebus per Pechino è che fare? Le opzioni sul tavolo per Xi Jinping sono dare concessioni che i dimostranti chiedono: suffragio universale per le elezioni, ritiro definitivo della legge e la sostituzione della Lam.

In alternativa, non rimane che un intervento dell’esercito, ora ammassato ai confini di Hong Kong che nel frattempo ha rafforzato la guarnigione militare in loco di circa 6/10 mila militari, mai intervenuti fino ad ora.

Sarà un’altra Tienanmen con bagni di sangue e forte perdita di credibilità per Pechino? Oppure una tregua con qualche concessione?

Questi due giorni, ed i prossimi a seguire, forse, ce lo diranno…

Vittorio Volpi