Riceviamo e pubblichiamo l’articolo seguente, firmato da un illustre cattedratico, che svela le immense implicazioni finanziarie della frenesia climatica.

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Ginevra 2019. Immagine Wiki commons (MHM55)

A un osservatore accorto potrebbe venire spontaneo chiedersi quali siano gli interessi finanziari dietro alla campagna sul clima. L’accordo di Kyoto prevede due sistemi per ridurre le emissioni di anidride carbonica (CO2).

Il primo è il Sistema di Scambio cattedratico, delle Quote Emesse (ETS = Emissione Trading System): si fissa un limite al totale di CO2 che ciascun paese può emettere; i partecipanti all’accordo, se superano la quota assegnata, possono acquistare sul mercato i permessi di emissione da quelli che emettono di meno. Non è quindi necessario ridurre le proprie emissioni, basta comprare i permessi per rientrare nei limiti. Un esempio recente: la Fiat Chrysler, che supera il limite di emissioni, ha acquistato crediti di CO2 da altre società per non pagare 2 miliardi di dollari di multa; nel 2017 ha acquistato da Tesla crediti per 279,7 milioni di dollari; nel 2018 per 103,4 milioni di euro.

Il secondo è il Meccanismo per lo Sviluppo Pulito (Clean Development Mechanism): permette ai produttori di CO2 di finanziare progetti di riduzione di emissioni in altri paesi, invece di ridurre le proprie. Il sistema ETS è stato avviato nel 2005 e si è rivelato un grande mercato con scambi di decine di miliardi di dollari. Sul mercato europeo fra il 2010 e il 2015 sono state scambiate 480 miliardi di t di CO2 per un valore di 500 miliardi di euro.

In teoria il sistema dovrebbe far aumentare il prezzo del “carbonio” per incoraggiare le innovazioni industriali che riducono le emissioni. Dopo l’avvio, però, si è verificato uno squilibrio con domanda scarsa ed offerta in eccesso. Il prezzo arrivò ad un valore di 2 euro per t di CO2 nel 2013, come conseguenza della crisi e del crollo della produzione industriale. La diminuzione dei prezzi è stata causata anche da un numero eccessivo di permessi dati gratuitamente. L’ETS ha rappresentato in pratica un erogatore di sussidi per i grandi produttori di CO2. Nella seconda fase (2008–2012) si è consentito ai produttori di energia elettrica di accollare ai consumatori il futuro costo dell’adeguamento attraverso l’aumento dei prezzi, con accumulo di risorse finanziarie tra i 23 ed i 71 miliardi di euro. Ad esempio i consumatori italiani, per dare sussidi alle rinnovabili, hanno pagato 13,4 miliardi di euro all’anno in più (Rapporto GSE, 2014). Non c’è da meravigliarsi: l’ETS è stato modellato sulle esigenze della grande industria. Ad es. il gigante del petrolio BP è tra le aziende che hanno premuto sull’UE a favore dei sistemi ETS e CDM, per ritardare l’adeguamento degli impianti e quindi continuare a vendere i prodotti petroliferi.

Nel 2013 vi erano sul mercato 2,2 miliardi di quote in eccesso: la UE ha ne ritirate 900, con una spesa di 4,5 miliardi di euro, per il timore di una crisi finanziaria e per salvare gli interessi finanziari sottostanti. Il presunto meccanismo di tutela ambientale si è trasformato in uno strumento di speculazione finanziarie. Tra il 2021 e il 2030 è prevista un’assegnazione gratuita alle imprese di circa 6,3 miliardi di quote, per un valore di 160 miliardi di euro, al fine d’impedire il trasferimento dei siti di produzione al di fuori dell’UE. Ma anche perché il sistema ETS è alla base della trasformazione progressiva del mercato della CO2 in un mercato finanziario che attrae operatori con finalità speculative: si può ormai comprare o vendere la CO2 non ancora prodotta. “Gli andamenti dell’ultimo anno hanno mostrato come l’interesse del mondo finanziario abbia costituito un elemento di continuità per il mercato dei crediti e quindi del meccanismo ETS”. (GSE, Rapporto annuale sull’andamento delle aste di quote di emissione italiane 2013).

Oltre all’assegnazione gratuita di quote vi sono: finanziamenti pubblici per il clima, 18 miliardi di euro all’anno; 10 miliardi di euro per utilizzare una parte della CO2 atmosferica per il recupero secondario del petrolio (che le industrie petrolifere, prima, facevano a spese loro); contributi ai finanziamenti internazionali per il clima di 100 miliardi all’anno. L’Europa, nella conferenza di Parigi del 2015, ha dichiarato di voler ridurre del 20% le emissioni entro il 2020, rispetto ai livelli del 1990. Le imprese soggette all’ETS contribuiscono con il 45% di CO2. Anche se l’Europa riducesse del 20% le proprie emissioni per il 2020, il risultato sarebbe “invisibile”. L’Europa (nel 2015) ha prodotto 3,3 Gt (il 9,4 % delle emissioni globali) ossia lo 0,11 % di tutta l’anidride carbonica presente nell’atmosfera: la riduzione del 20% influirebbe sul quantitativo totale di CO2 atmosferica per lo 0,01 % (il 20% del 45% dello 0,11%), in 5 anni! In atmosfera ci sono 400 ppm di CO2, lo 0,01% di 400 è  =  0,04 ppm (ossia 8 parti per miliardo all’anno!). Quantità difficilmente misurabile, infatti le oscillazioni naturali dell’anidride carbonica (giorno/notte, primavera/autunno) variano da 3 a 6 ppm.

Quindi le centinaia di miliardi di euro investiti per il clima o per il commercio dell’anidride carbonica non hanno niente a che vedere con la reale tutela del clima. La Banca Mondiale, nel suo ultimo report (State and Trends of Carbon Pricing 2017) dice che gli investimenti devono essere incrementati a 700 miliardi di dollari all’anno, fino al 2030, per limitare l’aumento della temperatura globale al di sotto di 2 °C. Nicholas Stern (ex responsabile della Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo) dopo un incontro a Parigi nel 2015 disse: “Gli investitori mondiali chiedono: grandi possibilità di investimenti, buoni profitti e libertà di azione…essi vedono nel cambiamento climatico la nuova svolta economica da cui estrarre valore”. Infatti il disinvestimento da carbone, gas e petrolio è in forte progressione; il report Global Fossil Fuel Divestment nota che la somma che le Compagnie di assicurazione, i fondi sovrani, i fondi pensione, gli enti religiosi, ecc., hanno disinvestito nel solo 2018, ha raggiunto 6.240 miliardi di dollari.

Per avere un’idea dell’interesse che la finanza internazionale mostra per le politiche climatiche, si può aprire la “home page” dell’FSB (Financial Stability Board). Gli scritti che trattano l’argomento clima, dal punto di vista finanziario, sono circa 3510. L’FSB fornisce informazioni agli investitori sulla possibilità di limitare i costi, ampliare le opportunità e ridurre i rischi degli investimenti nell’affare clima. Vi sono moltissime organizzazioni che gestiscono i fondi per il clima (miliardi di dollari) o che danno consulenze per gli investimenti. Il fondo per il clima dell’ONU convoglia miliardi di dollari per i progetti energetici nei paesi in via di sviluppo, le cui realizzazioni saranno ovviamente attuate dalle multinazionali occidentali. La “tutela del clima” è diventata la scusa per rilanciare la finanza mondiale. Pertanto l’unica speranza per ricondurre il problema delle evoluzioni climatiche del pianeta in un ambito scientifico è che la grande finanza smetta di interessarsi al clima. Ma questo è sempre più improbabile, vista l’enorme quantità di denaro in gioco.

Prof. Mario Giaccio

Professore ordinario di Tecnologia e innovazione nonché di Tecnologia ed economia delle fonti di energia nel Dipartimento di Scienze dell’Università G. D’Annunzio di Chieti-Pescara