Giappone. Castello Himeji. Wiki commons (Oren Rozen)

È noto che Giappone ed Italia siano due paesi molto diversi. Se da una parte è dimostrato che collaborare professionalmente unendo italiani con giapponesi sia possibile, è altrettanto certo che i due Paesi  non potrebbero essere più diversi. Combinare buona creatività e flessibilità, degli italiani, e disciplina e perseveranza, dei giapponesi, è una miscela che per mie esperienze dirette funziona.  La  convergenza però non finisce qui, perché  guardando alle loro economie si nota che fra i paesi industriali quanto a disciplina fiscale i due sono “campioni di debito pubblico”; in compagnia con altre piccole realtà.

Il Giappone ha un debito accumulato del 240% del PIL (prodotto interno lordo), l’Italia superiore al 130%. Possiamo quindi dire che il Sol Levante è messo ancora peggio del già pessimo debito pubblico italiano in termini di debito assoluto. Ma, come sempre, non c’è mai una cosa sola che spieghi tutto. Infatti, contrariamente alle cifre, chi sta peggio è l’Italia. L’argomento è ovviamente  molto più complesso. Analizziamo un po’.

Innanzitutto va tenuto conto della forte percentuale di investitori esteri che non hanno a cuore Italia o il Giappone, ma investono  solo per  rendimento e solvibilità. I dati ci suggeriscono che mentre per il Giappone gli investitori esteri contano un 5-6% del totale (il resto è materia domestica), l’Italia dipende per il 27% dall’estero.

Le conseguenze sono drammaticamente diverse, come evidenziato dopo il “passaggio di mani” fra un governo ritenuto sovranista – non gradito a Bruxelles e nelle cancellerie di Francia e Germania –  con una coalizione impensabile . Negli ultimi giorni di Salvini lo spread peggiorava a vista d’occhio rispetto ai Bund.

È bastato buttare il  leghista fuori da Palazzo Chigi per  far scendere di cento punti lo scarto fra i BOT italiani  ed i Bund tedeschi.  Lampante che l’investitore straniero (Europa o perlomeno quelli che contano ed hanno potere), non gradiva la Lega. Nel caso del Giappone invece la “manipolazione” estera del debito pubblico è difficile. Contrariamente all’Italia, il Giappone si basa sulla propria divisa, lo Yen, che controlla. Se c’è bisogno può stampare moneta, anche se può generare inflazione (di cui ha bisogno) ed ha una dipendenza limitata dagli investitori stranieri. Le autorità possono parare i colpi di eventuali interferenze con facillità.

Altro punto a favore del Giappone è che la spesa statale rispetto al PIL  è del 39% contro il 49% italiano. In questo secondo caso, si può dire che la spesa pubblica equivale alla metà della produzione di beni e servizi ed è gestita dallo Stato che conta più del privato. E lo Stato lo sappiamo  tutti,  spende più del necessario e spesso male: purtroppo.

Un altro caveat; il Giappone si è molto indebitato per le infrastrutture, non ha gettato soldi al vento con uno sperpero finto sociale. Se si osservano i lavori pubblici realizzati lo si deve constatare.  Ricordiamo un grande progetto realizzato fra tanti: la costruzione del Seikan Tunnel che congiunge le isole di  Honshu con Hokkaido,  53 chilometri di cui 23 sotto il mare e ci passa pure lo Shinkansen, il  “treno rapido”. Investimenti importanti e non sprechi che tutti vediamo nella spesa pubblica del Bel Paese.

Detto ciò, una delle difficoltà dell’economia italiana è evidente. Nel momento in cui c’è un bisogno disperato di stimolo dell’economia per muovere il mercato  e creare posti di lavoro, con “deficit spending”, il modello Keynesiano, non è utilizzabile perché si può agire solo a debito. E questo è già fuori controllo.

Una dimostrazione lampante l’abbiamo in  questi giorni con il tema dell’aumento dell’IVA che il Giappone ha già portato a termine con una formula che, grossomodo, anche l’Italia ha deciso di adottare. In gergo inglese denominato “cashback reward” , un premio in contanti per chi paga in modo elettronico (carte di credito).  Va detto che i giapponesi amano – troppo –  il contante. Ed è quindi un modo per incentivarli ad essere più moderni, efficienti.

Da  anni in Giappone, il governo cade quando paventa l’aumento dell’IVA, come nel 2014 quando con l’incremento dal 5 all’8% il paese andò in recessione ed il governo in crisi. Questa volta il Premier Abe  – sempre forte – ha avuto il coraggio di aumentare l’IVA dall’8 al 10%, ma strutturando bene la manovra che per ora è andata via liscia.

In sintesi non modificando l’aliquota  sui generi alimentari e,  interessante,  lanciando una nuova formula di incentivazione: uno sconto  del 2% per chi paga con carta di credito.  Cioè, il prodotto aumenta il prezzo del 2 %, ma il consumatore lo paga, con la carta, al prezzo precedente.  Anche se ci saranno ripercussioni negative sui consumi, l’aumento con i premi, per il momento sembra funzionare. I maggiori ricavi dell’IVA  serviranno per il sociale e per contenere il debito pubblico. Naturalmente il Giappone conta su una popolazione che legge e scrive nella totalità ed è ben attrezzato nel settore tecnologico. Vorrò vedere i pasticci altrove….

Ben diverse sono le connotazioni del progetto italiano che ha peraltro aliquote IVA molto più alte. Lo scopo del nuovo governo, il Conte bis –  è di evitare, in apparenza –  l’aumento dell’IVA concedendo sconti a chi paga con la carta anziché in contante. L’obiettivo principe di questa manovra è quello di mettere sotto la lente d’ingrandimento l’evasione fiscale, operazione facilitata se ci sono tracce sugli estratti conto delle spese individuali.

Non manca però l’imbroglio delle informazioni fasulle per non farsi capire dal cittadino. Si parla infatti di “rimodulazione” dell’IVA che significa aumentare comunque alcune aliquote differenziate: il che  equivale al solito refrain,  spennare il pollo senza farlo urlare…

Inutile dire che per finanziare altri impegni e sospendere l’aumento dell’IVA, la manovra complessiva,  si andrà anche a debito che equivale in altre parole ad infilarsi in una situazione ancor più difficile e pericolosa a causa dell’eccessiva dipendenza dagli investitori stranieri senza  potersi regolare con la divisa, l’Euro che non dipende da Roma.  Ciò finirà  per mettere, inter alia, le banche in situazioni ancor più critiche perché molto del nuovo debito finirà  nei loro portafogli.

Saranno loro i polli da spennare, o anzi no: purtroppo alla fine sempre noi cittadini.

Vittorio Volpi