di Paolo Camillo Minotti

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Paolo Camillo non è mai breve. Soprattutto Paolo Camillo non è mai veloce. L’articolo era stato preannunciato parecchi giorni fa.

Da pubblicare, logicamente, prima dell’elezione. Ma non arrivava mai. Ieri sera, mentre indossavo il cravattino (operazione sempre delicata), miracolo! 

Ecco l’articolo. È lungo? Sì. Vale la pena di leggerlo? Ancora sì. Domani è il gran giorno. Parleremo solo di numeri, di percentuali, di Hagenbach-Bischoff, di eletti e trombati. La Destra ha giocato con impegno le sue carte; il Centro si è “congiunto”; la Sinistra ha creato un’ammucchiata probabilmente vincente: i Rossi coi Verdi Rossi (e… con l’aria che tira).

Ticinolive (come tutti gli altri) racconterà.

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Foto Wiki commons (ChiralJon)

Nei commenti che si leggono sui giornali o che ci tocca sentire nei talk-show televisivi riguardo alle laboriosissime trattative sulla Brexit, ci sono delle cose che non vengono mai dette, degli aspetti della questione che non vengono mai nemmeno sfiorati. Il clima su questo tema è «bulgaro», come si diceva prima della caduta del muro di Berlino. Tutti rigorosamente contro la Brexit e Theresa May ed ora contro Boris Johnson. Questo vale un po’ per tutti i Paesi UE e anche nei dibattiti di casa nostra. Mi colpirono molto in due diverse occasioni qualche tempo fa dei dibattiti su questo tema in «C dans l’air» su TV5 (che di solito è una trasmissione di approfondimento seria a cui partecipano esperti, professori universitari ecc. e non i soliti politici e giornalisti menatorroni): tutti i partecipanti erano con più o meno fervore avversari della Brexit e dicevano in coro le stesse cose: che la scelta dei cittadini britannici era stata azzardata ed era stata estorta dalle bugie dei Brexiteers, che le proposte di Theresa May erano inaccettabili per l’UE e che il Regno Unito rischiava di pagare caro la Brexit in termini di calo dell’occupazione e di declino dell’economia britannica, e via dicendo. Nessuno invece che osasse criticare l’intransigenza del presidente Macron e del negoziatore UE Michel Barnier, quando pure era risaputo – perché ne avevano parlato alcuni giornali tedeschi e inglesi – che vi erano tra Berlino e Parigi delle sfumature sull’atteggiamento da adottare nelle trattative con la G.B. (i tedeschi erano più possibilisti sull’ipotesi di qualche concessione per arrivare a un accordo consensuale, anche se poi alla fine si adattarono alla linea Macron-Barnier). Parimenti nessuno che accennasse anche solo di striscio alle possibili ripercussioni negative anche sull’economia francese e tedesca di una eventuale No-deal-Brexit; e nessuno che avesse la saggezza di suggerire una separazione bonale, come si addice a dei Paesi evoluti e amici, al fine di non aggravare un clima economico (e politico) internazionale già marcato da altri fattori di incertezza. E invece no: sotto a muso duro, lasciandosi guidare dalla massima un po’ machiavellica che occorresse dissuadere altri Paesi che potevano essere tentati di imitare la Gran Bretagna, o forse ancor peggio dalla massima maoista secondo cui «occorre punirne uno per educarne cento». Eppure la storia dei rapporti fra l’Europa continentale e il Regno Unito (e in specie tra Francia e Gran Bretagna) negli ultimi 150 o 200 anni è una storia prevalentemente di collaborazione che non dovrebbe essere dimenticata: la Francia deve la sua rinascita nel 1945 all’ostinata resistenza che il Regno Unito, in un momento in cui il suo destino sembrava segnato, seppe dimostrare nei confronti della Germania nazista (De Gaulle e la Francia furono dei «miracolati» dello sbarco anglo-americano in Normandia che liberò la Francia e l’Europa occidentale dal giogo hitleriano; la Francia non si liberò da sola, come l’ego gallicano di De Gaulle e 70 anni di retorica sulla «Résistance» volevano e vorrebbero dare ad intendere).

Ma tant’è: in politica e nei rapporti fra Stati sappiamo che la gratitudine è una virtù rara, mentre prevalgono spesso moventi e interessi di corta veduta che possono portare anche a duri scontri fra Paesi che pur si richiamano allo stesso retaggio storico e agli stessi valori liberaldemocratici frutto della storia del nostro Continente. L’intransigenza di Macron e di altri leader dell’UE verso Londra, pur essendo deplorevole, può quindi ancora essere comprensibile. Ben diversa è la situazione del nostro Paese. Che vi siano dei politici (o dei candidati a diventarlo) che «tifino» per l’UE contro la Gran Bretagna e che si rallegrino che il Regno Unito non sia ancora riuscito dopo 3 anni dal referendum a concretizzare la Brexit, ci ha fatto un’impressione molto negativa. Vogliamo citarne qui solo tre, in quanto ci è capitato di seguire attentamente dei dibattiti a cui essi partecipavano.

La forza del numero enfatizzata oltre misura
Cominciamo da quello che si è espresso in modo meno sgangherato fra i tre: Filippo Lombardi in un dibattito di qualche giorno fa su Teleticino si affannava a spiegare, con l’enfasi pedagogica di un maestro di scuola elementare intento ad erudire i pupi, l’argomento «principe» degli anti-Brexiteer e dei fautori di un indispensabile stretto legame tra Svizzera e UE, ovvero quello delle possibili ripercussioni negative sull’economia britannica in caso di Brexit o sull’economia svizzera in caso di disdetta del Trattato sulla libera circolazione e possibili conseguenti ritorsioni da parte dell’UE. Spiegava dunque Lombardi che sia dalla Brexit che dalla disdetta dei Bilaterali ci sarebbero ripercussioni negative per entrambe le parti, laddove però l’UE ne soffrirebbe meno perché «esse verrebbero spalmate su 500 milioni di abitanti, mentre in G.B. e a maggior ragione in Svizzera esse dovrebbero essere sopportate da solo 60 rispettivamente 8 milioni di abitanti».

G.B. e Svizzera sono tra i migliori clienti dell’UE
Si tratta di una immagine suggestiva; peccato che non corrisponda però alla realtà dei rapporti economici intercorrenti effettivamente fra gli Stati. Ci spieghiamo: il danno per esempio che subirebbe l’UE per la eventuale riduzione delle esportazioni di prodotti industriali verso la G.B. (in specie nell’eventualità di una No-deal-Brexit) non si spalmerebbe affatto su 500 milioni di europei, ma ricadrebbe in buona parte su 70 milioni di tedeschi perché è la Germania fra i paesi UE la principale esportatrice industriale nel Regno Unito (in primis le auto). Stessa cosa per il danno conseguente a una riduzione dell’export europeo di prodotti dell’agroallmentare verso la G.B., che non si spalmerebbe in modo uniforme su 500 milioni di europei, ma toccherebbe prevalentemente 3 o 4 paesi (Italia, Francia, per frutta e verdura in parte anche Polonia e Spagna).

E per i rapporti Svizzera-UE valgono mutatis mutandis le stesse considerazioni: la Svizzera esporta poco più del 50 percento dei suoi prodotti verso l’UE (non il 60 percento o i due terzi come detto da alcuni, per es. Davide Lurati e Greta Gysin, in recenti dibattiti), ma una fetta significativa di questi export vanno nei 3 paesi confinanti Germania, Italia e Francia, i quali fanno a loro volta la parte del leone nelle esportazioni UE verso la Svizzera. E va notato di transenna che la Svizzera importa dall’UE (ma per l’essenziale dai 3 paesi citati) più di quanto vi esporti: quasi i due terzi delle nostre importazioni provengono dall’UE mentre solo poco più del 50 percento delle nostre esportazioni vanno nell’UE. Insomma: siamo un buon cliente (il terzo miglior cliente) dell’UE, rispettivamente della Germania. Non è quindi scontato, come si paventa ossessivamente, che una nostra disdetta della libera circolazione causerebbe automaticamente da parte dell’UE l’applicazione di misure di ritorsione (la cosiddetta clausola-ghigliottina).

Chi è che si fa ridere dietro?
In un dibattito su Teleticino il candidato PPD Davide Lurati si è per contro spinto molto più in là nello sbeffeggiare la Brexit. Rispondendo a non so più quale candidato UDC o leghista che criticava il previsto Accordo-quadro e auspicava la disdetta della libera circolazione, egli a un certo momento ha risposto dicendo con disprezzo e scherno «ma non raccontate storie, che vediamo bene le difficoltà del Regno Unito che non riesce a uscire dall’UE». Come a dire: rassegnatevi, che anche noi dovremo entrarci e non possiamo disdire nulla, perché se non riesce la G.B. a tener testa a Bruxelles figurarsi se possiamo riuscirci noi piccola Svizzera.

Più o meno lo stesso tipo di battuta è stato ripetuto più volte (e anche scritto sui giornali, se non vado errato) pure dalla candidata dei Verdi Greta Gysin, che disse più o meno : «ma vediamo bene che il governo britannico si sta facendo rider dietro da tutto il mondo per come sta gestendo la Brexit, e non ci sta riuscendo!».

Si tratta di battute da bar, non degne di uomini o donne politiche con un minimo di formato e di serietà! Tanto per cominciare il Lurati si contraddice in modo pacchiano perché più o meno negli stessi giorni scriveva sul CdT di essere contrario all’adesione svizzera all’UE, ma poi sfotte la G.B. che non riesce ad uscirne. Perché uno che non vuole aderire all’UE dovrebbe rallegrarsi degli ostacoli che sta incontrando la Gran Bretagna ad uscirne? È illogico. L’unica interpretazione possibile è che Lurati menta, cioè dice di essere contrario all’adesione per ovvi motivi elettoralistici, ma in realtà sa benissimo che l’Accordo quadro sarebbe solo l’anticamera dell’adesione. D’altronde, se già ora stando del tutto fuori la Svizzera è sottoposta a un “pressing” così massiccio, immaginiamoci come verremmo trattati una volta che avessimo sottoscritto anche l’Accordo‐quadro!

La realtà è che anche grazie ai politici “di Centro” amici di Lurati la Svizzera già oggi tende troppo spesso a concedere gratis all’UE – pur non essendone membro e prima ancora di aver conclusa la trattativa sull’Accordo quadro – tutto quanto è possibile concedere. Un esempio tipico di ciò è l’accettazione della direttiva sulle armi, un altro esempio ancora più pacchiano è il versamento del miliardo di coesione (che è stato messo in stand‐by e fatto slittare a dopo le elezioni per meri motivi opportunistici elettorali, ma che i partiti di Centro sono pronti a votare come segno di good will, anziché utilizzarlo perlomeno come moneta di scambio per concessioni dell’UE a nostro favore). In quanto poi al fatto che i Britannici “si stiano facendo rider dietro”, per dirla à la Greta Gysin, diamo tempo al tempo: il futuro dirà se in ultima analisi a farsi ridere dietro saranno stati i Brexiteers britannici o non piuttosto la Greta Gysin per le sbruffonate profferite.

C’è qualcosa che non va nei meccanismi parlamentari britannici
Occorrerebbe però avere anche l’onestà intellettuale di raccontarla bene la storia, cioè di dire chi come e perché con il proprio atteggiamento negli scorsi mesi ha ridicolizzato la Gran Bretagna in tutto il mondo. Sono in primo luogo gli anti‐Brexit che con il loro ostruzionismo fanatico hanno paralizzato la Camera dei Comuni. È lo speaker della Camera dei Comuni (con il suo comportamento da pagliaccio e le sue innovazioni procedurali della secolare consuetudine parlamentare britannica, finalizzate a sabotare la Brexit), è il leader dell’opposizione laburista Jeremy Corbin (con la sua perfidia ipocrita) e un po’ naturalmente anche l’ex premier Theresa May (con la sua sprovvedutezza accoppiata a una ostinazione inappropriata) i principali responsabili del caos alla Camera dei Comuni che tutti abbiamo visto in tivù. Ma ora con Boris Johnson le cose stanno cambiando, perché egli sta mostrando determinazione e questo ha fatto riprendere il Partito conservatore nei sondaggi (dopo il minimo storico toccato qualche mese fa sotto la guida di May) e, di conseguenza, è cresciuto anche il rispetto di Bruxelles nei confronti di Londra.

Perché va detto che stranamente nessun commentatore ha descritto ciò che veramente non è funzionato nel meccanismo politico‐parlamentare britannico negli scorsi mesi. Secondo logica e buon senso in qualsiasi democrazia parlamentare, quando c’è una situazione di stallo in quanto il Governo venga sconfessato dal Parlamento su una questione importante, dovrebbe esserci un meccanismo che permetta di sbloccare la situazione: ovvero, delle due l’una: o il premier dimissiona e lo si sostituisce con il leader dell’opposizione il quale tenterà di raccogliere la fiducia del parlamento o, se costui non ci riesce, si va a nuove elezioni.

Ma il parlamento non può pretendere di tenere in carica il premier sfiduciato e costringerlo a fare ciò che esso meglio creda, non può per esempio (come la Camera dei Comuni ha fatto a due riprese con Theresa May e pretendeva di fare anche con Boris Johnson) – dopo aver bocciato un Accordo di uscita dall’UE già concordato con quest’ultima – pretendere che il Premier vada a ritrattare nuovamente con Bruxelles un nuovo accordo, quando peraltro l’UE aveva proclamato solennemente che l’Accordo siglato era l’unico accordo possibile! A ben vedere il parlamento britannico è sconfinato così facendo nel territorio dell’assurdità. Un parlamento può eleggere un governo, può sfiduciarlo e sostituirlo con un altro, ma non può sequestrare un Premier sfiduciato e costringerlo a eseguire ordini assurdi contro la di lui volontà e così facendo ridicolizzarlo e ridicolarizzare il Paese tutto. Theresa May si è prestata fin troppo a questo gioco.

Il confronto con la situazione italiana
Per capire quanto appena detto, basta fare il confronto tra la vicenda tormentata della May e di Johnson con quanto successo in Italia 2 mesi fa. In Italia, dopo che Salvini aveva fatto cadere il primo governo Conte, il presidente della Repubblica ha verificato se ci fosse una maggioranza alternativa in parlamento e – appurato che essa c’era – ha incaricato ancora lo stesso Conte di procedere alla formazione di un nuovo Governo, indi le Camere gli hanno dato la fiducia. Si può giudicare come si vuole tale operazione (personalmente la ritengo una furbata squalificante per gli attori che vi si sono prestati e che nota bene fino a due giorni prima erano in disaccordo su tutto e si insultavano a scena aperta), ma essa è stata costituzionalmente legittima ed è stata permessa da un dettato costituzionale che fissa delle procedure precise da ossequiare in caso di crisi di Governo.

Il nodo dell’assenza di una Costituzione scritta
In Gran Bretagna invece, dove non c’è una Costituzione scritta, finora la prassi parlamentare si basava sulla consuetudine secolare per cui – in caso di sconfessione del Governo in carica – si andava ad elezioni anticipate, salvo nei (rari) casi in cui in presenza di un paesaggio partitico multipolare fosse possibile una diversa coalizione di governo. Negli scorsi mesi con Theresa May e poi qualche settimana fa con Boris Johnson, sono invece avvenuti due strappi a questa secolare tradizione. Trattandosi solo di una tradizione consuetudinaria, e non di una norma costituzionale scritta, naturalmente non si può dire che si sia fatto qualcosa di illegale; però sicuramente qualcosa di illogico e anche un po’ assurdo.

Prima assurdità: la mancanza di una norma imperativa che imponga al premier sfiduciato di dimissionare (e che ha permesso a Theresa May di restare appunto al Governo pur essendo stata sconfessata per ben due volte sullo stesso oggetto).

Seconda assurdità: la mancanza di un’autorità superiore che possa in caso di necessità sciogliere la Camera e convocare nuove elezioni (in Italia questo potere è del presidente della Repubblica, nelle monarchie dovrebbe essere una prerogativa del Re ma tale prerogativa non è più esercitata o non è nella prassi britannica). Infatti quando Boris Johnson, dopo aver constatato che nel parlamento vi era una situazione di stallo che gli impediva di fare qualsiasi mossa per risolvere la “patata bollente” della Brexit, giustamente ha proposto di andare a elezioni anticipate, la Camera dei Comuni ha bocciato la proposta. È assurdo che un parlamento che non è in grado di esprimere un Governo coerente, perché frammentato e privo di una maggioranza politica chiara, si rifiuti altresì di convocare nuove elezioni!

Infatti la Camera dei Comuni aveva davanti a sé, obiettivamente, solo due opzioni se non accettava la Brexit come proposta da Johnson: o cercare di creare un Governo con una maggioranza alternativa oppure andare a nuove elezioni. Laddove va detto che la prima opzione è molto difficile da concretizzare – e infatti finora non si è realizzata ‐ perché tra la Sinistra laburista di Corbin da un lato e i Liberaldemocratici e i dissidenti conservatori dall’altro lato vi sono divergenze fondamentali, sulla politica economico‐sociale ma anche sulla stessa Brexit (al di là delle dichiarazioni di facciata), perché Corbin è stato nel passato un avversario dell’UE e il partito laburista è diviso e non ha una posizione credibile sul tema.

Inoltre Corbin non vuole schierarsi apertamente contro la Brexit ‐ anche se di fatto la sta sabotando ‐ per non perdere quei collegi elettorali che tradizionalmente sostengono i laburisti, ma che nel referendum del 2016 hanno votato massicciamente per la Brexit! Corbin sta facendo tatticismo partitico e spera che, sabotando la politica di Johnson,
quest’ultimo perda simpatie nell’elettorato e che ciò consenta ai laburisti di andare al governo fra sei mesi o fra un anno. È però molto difficile che questo piano riesca. Eventualmente il sabotaggio potrebbe riuscire se, imitando la spregiudicatezza dimostrata dai Giallo‐Rossi in Italia, decidesse di accordarsi con i Lib‐Dem, con i nazionalisti scozzesi e con i dissidenti Tory per poi far ripetere il referendum, il cui esito però resta incerto; probabilmente vincerebbero ancora i pro‐Brexit.

Conclusione
La morale della favola potrebbe quindi essere la seguente: gli anti‐Brexiteers del Regno Unito sono dei sabotatori della volontà popolare democraticamente espressa, proprio come lo sono in Svizzera i partiti eurofili e pro‐immigrazione che hanno “applicato” a rovescio l’articolo costituzionale del 9 febbraio. Il popolo aveva detto Roma e il parlamento nella legge d’applicazione ha scritto Toma.

Paolo Camillo Minotti