Massimo Berardi con il suo ultimo libro “Hanno invaso la Svizzera” edito da Ensemble

Massimo Bernardi, scrittore noto per la sua originalità, già ospitato da Ticinolive.ch in precedenza,  torna nelle librerie con “Hanno Invaso la Svizzera” giudicato “miglior raccolta di racconti” al Rive Gauche Festival 2019. Lo scrittore si racconta così alla nostra redazione.

“Da chi è mai stata invasa la placida e neutrale Isvizzera? Non parliamo di guerre o di battaglie, qui. L’autore fa largo uso di metafore e gli piace fantasticare (…)” [Dino Buzzati nella Prefazione].

Leggendo i Suoi racconti la prima impressione è quella d’una forte patina onirica. Lei, per caso, descrive in essi Suoi sogni?

La componente onirica e surreale è sempre stata presente miei racconti, in maniera a volte più celata, altre volte più evidente. Nella prima sezione di “Hanno invaso la Svizzera”, intitolata “Sogni d’oro”, troviamo una nutrita serie di racconti brevi ispirati in parte ai miei sogni notturni. Ho l’abitudine infatti di scriverli al computer, appena sveglio e quindi prima di dimenticarli. Ma nel libro non si trovano della semplici trasposizioni dei sogni così come sono. I sogni danno solo lo spunto iniziale: parto da alcuni elementi e li sviluppo cercando di creare narrazioni che siano interessanti, oltre che bizzarre e nonsense.

Al di là di tutto, quanta importanza dà ai sogni?

I sogni li considero in un certo senso la continuazione e l’estensione delle nostre vite reali nella dimensione notturna. Mi piace che nei sogni ci sia tutto quel caos, quelle situazioni assurde eppure a volte famigliari, legate anche ai nostri ricordi personali ripescati alla rinfusa. Tutto il nostro vissuto entra in un vortice, in un frullatore che genera mille altre storie (im)possibili, che nel momento in cui le percepiamo ci sembrano assolutamente vere. Mi affascina la componente misteriosa che a volte i sogni possono avere, come le premonizioni di fatti che accadranno davvero. La storia e la letteratura poi sono piene di aneddoti legati ai sogni, a partire dai racconti biblici, e questo ne ribadisce l’importanza.

Buzzati Le ha scritto la prefazione. Con straordinario Suo ingegno, s’intende. Perché lo ha fatto “resuscitare”? E perché avrebbe scelto proprio lo scrittore come suo “mentore”?

Il mio legame con Buzzati è profondo e risale ai lontani anni del liceo, quando il professore di italiano ce lo fece conoscere attraverso il suo capolavoro “Il deserto dei tartari”. Da allora ho cercato tutti i suoi scritti, compresi quelli meno noti, trovandoci davvero molte affinità e sintonie con quello che era il mio animo inquieto di giovane introverso e scrittore alle prime armi. Negli anni l’ho davvero mitizzato eleggendolo a mio autore preferito, e credo che i temi e lo stile di ciò che scrivo risentano abbastanza della sua influenza. Il gioco di rievocarlo nella prefazione da un lato vorrebbe nobilitare il mio libro (un vero onore essere presentato da lui!), dall’altro è anche un modo per introdurre fin da subito il lettore nella dimensione onirica dei racconti dove tutto è possibile: perfino un Buzzati redivivo.

Il nonsense è una componente importante della Sua raccolta. Cosa significa per Lei? perché lo definisce “rassicurante”? non potrebbe per alcuni essere piuttosto “angosciante”?

Il nonsense è un po’ un Giano bifronte con entrambe le facce. Può essere angosciante per chi magari è più razionale e abituato agli schemi classici, rassicurante per chi è più portato all’aspetto  visionario e fantastico. Io amo molto l’arte che in qualche modo esalta la dimensione inconscia e irrazionale della vita, dal barocco al dadaismo, e la rifletto nei miei scritti. Il nonsense forse per me è anche un modo per affrontare con un sorriso sarcastico le angoscie e le brutture della vita, per alleggerirle e in fondo anche addomesticarle.

Nei Suoi racconti fonde elementi molteplici. Ci sono personaggi delle fiabe, della Pixar, del fumetto, assieme a nomi di Sua invenzione, in una cornice di vero e di assurdo. Perché questa scelta?

È vero, nei miei racconti c’è spesso una girandola di personaggi attinti in parte dalla vita reale, compresi politici attori e cantanti famosi, in parte dal mondo immaginario dello spettacolo e della letteratura e in parte di mia invenzione. Non so, credo che mi venga più naturale mescolare vari elementi in contesti bizzarri e assurdi piuttosto che costruire una trama lineare classica. Un po’ come avviene nei sogni, del resto. Seguo solo il mio istinto, che mi porta ad approcciarmi alla scrittura in modo creativo e sperimentale, e sempre con una certa ironia. Con le dovute distanze, è un approccio che a mio parere ricorda un po’ la giocosità delle poesie di Aldo Palazzeschi e delle “parole in libertà” dei futuristi.

Ne Il cinque maggio, ad esempio, emerge con ironia un rancore mai sopito dell’infanzia (il narratore per poco (e per sbaglio) non uccide la sua maestra delle elementari. Simbolo o solipsismo?

In realtà non avevo nulla contro la mia maestra! Si tratta soltanto di pura invenzione. A volte le storie nascono casualmente e si sviluppano seguendo percorsi che all’inizio neanche ti immaginavi. E in questo caso il confine tra la gag e il dramma è molto sottile.

Città immaginarie, città vere ma sognanti, non senza un senso d’inquietudine, come Parigi. Qual’è la sua città preferita e perché?

Potrà sembrare strano, ma una delle mie città preferite è Milano. Ce ne sono di molto più belle, ovviamente. Ma Milano ha un suo fascino particolare, che si respira nei suoi luoghi più noti ma anche nei quartieri periferici, che sono spesso dei vecchi borghi con una precisa identità storica, sopravvissuti come tanti relitti soffocati dai grattacieli. È un tessuto complesso di monumentalità e di modernità, di stimoli culturali e architettonici contrastanti, come poche metropoli sanno offrire. E poi, tra l’altro, era la città adottiva di Dino Buzzati. Adoro poi le cittadine dell’entroterra umbro e toscano e in generale le città di mare con i loro porti. Una città attraversata da un fiume è sempre più affascinante di una senza. Potrei costruire tutta una una geografia dell’anima mettendo insieme i pezzi di tante città diverse, e nei miei racconti affiorano sempre echi di città che ho amato e vissuto. Magari trasfigurate in luoghi immaginari come le Città invisibili di Itano Calvino.

Nell’immaginazione quanto peso ha la realtà?

La realtà resta sempre abbastanza fuori, ai margini. Trovo molti più stimoli nel manipolarla e distorcela piuttosto che accettarla così com’è. Però a volte anche la realtà sa essere straordinaria, rasentando l’incredibile. Per la sezione di racconti “Scherzi del caso” mi sono ispirato proprio a dei fatti di cronaca realmente acccaduti e che ho trovato su Youtube. Ci sono state nella storia, ma anche di recente, delle coincidenze così assurde da sembrare inventate. Cito due esempi: 1) quattro diversi naufragi nelle stesse acque a distanza di secoli dove l’unico sopravvissuto aveva sempre lo stesso nome e cognome; 2) l’automobile dove fu assassinato il duca Francesco Ferdinando, evento scatenante della prima guerra mondiale, che era targata A 11 11 18:  la data della firma dell’armistizio che pose fine alla guerra.

Nella seconda parte del Suo libro, si ispira ai dipinti, che potremmo definire medievaleggianti di Sergio Padovani. Qual è il suo rapporto con l’artista?

Io e Sergio ci conosciamo da diversi anni. Per qualche tempo abbiamo esposto insieme ad altri artisti in alcuni spazi espostivi di Modena, io con le fotografie e lui con i suoi primi dipinti. Poi lui ha intrapreso una brillante carriera di pittore ed espone oggi in diverse gallerie di Milano e del Veneto, mentre io negli anni ho un po’ messo da parte la fotografia per puntare maggiormente sulla scrittura. Credo che ci accomuni una certa visionarietà legata all’inconscio, forse anche perchè abbiamo lo stesso background “dark” in termini di gusti musicali, cinema e arte in generale. E quindi trovare ispirazione direttamente dai suoi quadri (scrivendo i racconti della sezione “Con il favore della notte”) mi è venuto naturale e spontaneo.

La sensazione del sogno, nella seconda parte, si fa più inquieto. Da cosa è dato il forte mutamento tra lo stile della prima e della seconda parte del Suo libro?

La prima parte del libro è “il lato luminoso della luna”, mentre la seconda è “il lato oscuro”. Questa divisione piuttosto netta e chiaramente in debito con un noto album dei Pink Floyd corrisponde anche a due diverse tipologie di racconti. Quelli della prima parte sono stati scritti una prima volta e poi corretti, ampliati o ridotti. C’è stato quindi un lavoro di elaborazione fino alla forma finale. Quelli della seconda parte invece sono praticamente stati scritti di getto, spesso sull’onda delle suggestioni di brani musicali. Tanto che assomigliano più ai dei “flussi di coscienza” in stile James Joyce che a veri e propri racconti. Sono quasi delle visioni, dove a differenza dei brani della prima parte che sono spesso ironici e divertenti (quindi “luminosi”) prevalgono le emozioni crepuscolari, il ripiegamento interiore e malinconico.

Ritorna, in Feconde ardono le violazioni, l‘infanzia, aleggiata da nostalgia. C’è qualcosa che rimpiange di quel passato lontano?

L’infanzia è un luogo dell’anima dove ritorno spesso per attingere suggestioni e spunti per scrivere, non solo in questo libro ma anche nei precedenti. È stato il periodo in cui ho sperimentato i miei primi approcci con la scrittura, prima in forma di fumetti (che disegnavo imitando le storie di Topolino e Paperino), poi di racconti illustrati su personaggi di mia invenzione. Dall’infanzia mi sono rimaste impresse figure simboliche, luoghi, concetti e ragionamenti visti dal punto di vista del mio io-bambino. Nel racconto citato, per esempio, era “l’uomo nero”, utilizzato a volte da mia madre come spauracchio a fini educativi, che aveva un riferimento concreto ma che per me diventò poi una specie di mito, di fiaba ancestrale. Della mia infanzia rimpiango proprio quell’innocenza perduta, quella visione della realtà come se fosse un mondo incantato. E che forse inconsciamente vado a ricercare con le cose che scrivo.

A che genere appartiene la Sua letteratura? Si potrebbe dire che lei sia un innovatore, nel campo letterario… a chi si ispira?

Non so se ho un punto di riferimento vero e proprio, né se la mia letteratura rientri in un genere. Qualcuno scherzando, ma forse neanche troppo, parlando dei miei libri ha tirato in ballo Haruki Murakami. Lungi da me il paragonarmi a un simile “mostro sacro”, ci mancherebbe. Però quella sua realtà magica, quella maniera perfetta di rendere credibili anche le storie più assurde e inversomili è in fondo un po’ la strada che sto cercando di seguire anch’io, nel mio piccolo. Ammiro molto anche chi costruisce storie che sembrano architetture, tanto sono complesse e fuori dagli schemi. Due esempi straordinari sono “L’Atlante delle nuvole” di David Mitchell, dove si intrecciano sei filoni narrativi paralleli di epoche diverse e “Le sette morti di Evelyn Hardcastle” di Stuart Turton, dove la stessa giornata si ripete più volte ma vista dal punto di vista di tanti personaggi.

Per concludere, se dovesse scegliere tra tre parole, quali sceglierebbe per descrivere la Sua raccolta?

Divertente. Originale. Curiosa.

Intervista a cura di Chantal Fantuzzi