di Friedrich Magnani

Dopo trentotto giorni di scioperi, vetrine rotte e cassonetti bruciati, il Premier francese, Edouard Philippe, ha dovuto cedere e sospendere sine die, il tanto contestato punto della riforma delle pensioni, la soglia anagrafica dei sessantaquattro anni, per ottenere il pieno della pensione. E’ stato il più lungo sciopero dal 1995. Partito dalla rivolta degli “cheminots” i ferrovieri, la protesta si è allargata a tutta la fascia dei dipendenti pubblici francesi.

Macron a Versailles (incontro con Putin) // Foto wiki commons (Kremlin.ru) https://creativecommons.org/licenses/by/4.0/deed.fr

Ma cos’è che li ha fatti arrabbiare così tanto? L’esecutivo francese, dato l’inevitabile invecchiamento della popolazione e l’allungamento della speranza di vita, ma soprattutto, per la non sostenibilità finanziaria, ha provato a riformare uno dei sistemi pensionistici più generosi al mondo (verso il pubblico impiego), con quarantadue casse previdenziali, i cosiddetti regimi speciali, che privilegiano alcune categorie di lavoratori a discapito di altre. Emblematico il caso di quei ferrovieri che possono andare in pensione a cinquant’anni. Uno studio dell’ente pubblico francese COR (Conseil d’Orientation des Retraites), ha stimato in 19 miliardi di euro, il buco finanziario che si potrebbe creare entro il 2025, con l’attuale sistema previdenziale.

Ma apriti cielo, toccare lo Stato francese è come stuzzicare un toro. I 17 miliardi spesi in un solo anno (in deficit) per accontentare i gilet gialli, con sostegni al reddito minimo,  sgravi fiscali e contributi, non sono bastati a placare le ire. Se queste spese fossero state fatte in Italia, ci saremmo trovati alle barricate con l’Unione Europea, con contorno d’impennata di spread. Evidentemente Bruxelles vede lungo e preferisce chiudere un occhio, se non tutti e due, pur di non far crescere il consenso dei populisti di Marine Le Pen.

Certo, qualcosa la Francia dovrà pur fare. Le regole valgono, o dovrebbero valere anche per essa. Il leviatano della spesa pensionistica francese, sfiora il 14% del pil, solo dopo Italia e la Grecia, che arrivano al 16%. Ma il totale della spesa pubblica in rapporto al pil è oltre la media dell’Unione Europea e arriva al 56%, contro il 49% del Belpaese. Il debito pubblico francese è volato in percentuale al prodotto interno lordo, dal 21% del 1980 al 100,4% attuale. Roba da far sgranare gli occhi. E non è finita qui, la Francia può permettersi di andare avanti con il tasso di popolazione attiva più basso di tutta l’Europa, pari al 45% (In Germania, è pari al 52,7%). Questo grazie al totem delle 35 ore lavorative, che nessun Presidente francese, anche se turbo capitalista, oserebbe toccare. Ma spiace dirlo, la Francia non è più quella di De Gaulle, il suo ruolo di potenza mondiale è passato dal quinto, al settimo posto e la sua quota negli scambi commerciali globali è passata dal 6,3% ,del 1980, al 3% attuale.

Questo suo vivere da cicala le è stato possibile grazie alla sua storia, al suo peso diplomatico e al suo saper fare impresa, malgrado tutto. Il settore del lusso e della moda trainano molto il vagone francese e le grandi aziende hanno saputo battere la concorrenza, dal gigante dell’aeronautica Airbus, a quello dell’agro-alimentare, Danone. Le banche francesi sono tra le prime dieci banche europee e un efficiente sistema di trasporti, con linee che collegano Rotterdam ai grossi distretti industriali francesi, garantiscono un rapido accesso ai mercati internazionali. La Francia è riuscita poi a rimanere al passo con la digitalizzazione, e i tempi della burocrazia e dei processi giudiziari non sono certo quelli dell’Italia. Prova ne è, che sia riuscita nel 2019 ad ottenere il secondo podio in Europa, per investimenti diretti esteri, dopo la Germania, secondo Business France.  Segno, che malgrado l’alta tassazione delle imprese, l’assenza di burocrazia e la chiarezza delle leggi, giochino a suo favore.

Per di più, la macchina della pubblica amministrazione francese, seppur mastodontica, funziona bene. La grande scuola elitaria dell’alta amministrazione francese, l’Ena, ha saputo sfornare un efficiente e preparata classe di politici e alti funzionari, qualcosa di diverso dal nostro Ministro degli esteri,  che scambia il Venezuela per il Cile. Certo è però, che questa selezione verso gli alti ranghi, ha da sempre favorito i figli e i rampolli dell’alta borghesia, e i francesi non ne possono più.

Un ascensore sociale bloccato da troppo tempo, che ha spinto il Presidente Macron, a voler riformare il sistema di selezione della pubblica amministrazione. Il problema, è che la persona sbagliata, al momento sbagliato. I francesi, vedono lo stesso Presidente, come un prodotto dell’élite, nei panni di un narcisista Re Sole, intento a distribuire mance. Un re che vive in una delle capitali più spendaccione d’Europa. La municipalità della ville lumière ha accumulato un debito di 5,5 miliardi di euro.  E poi, alcuni, non gli hanno perdonato di avere abolito l’imposta sulla fortuna, quella tassa che aveva fatto scappare molti paperoni di Francia, oltralpe e oltreoceano. Insomma, a Macron, il colpo alla botte (ai poveri)  e quello al cerchio (ai ricchi), non gli son serviti  a molto. E ora che tenta di scalfire la roccia dello statalismo francese, arrivano i guai seri. Il settore pubblico assorbe quasi il  22% della forza lavoro in Francia, contro il 14% dell’Italia.

Per non parlare infine, del capitolo privatizzazioni, tra le poche vie d’uscita nel trovare le coperture alle spese.  Anche lì Macron, ha dovuto scontrarsi con l’amore dei francesi per le società pubbliche.  Il referendum contro l’iniziativa di privatizzare gli aeroporti di Parigi,  che si terrà tra due mesi, ha già raggiunto un milione di firme. E che dire del  grande carrozzone di stato SNCF, che ha già accumulato 54 miliardi di debito. Tentare di privatizzarlo, potrebbe tradursi in un rischio d’attentato alla Presidenza francese. Comunque, il nocciolo duro, rimangono sempre, i noti quattro tabù: le 35 ore, lo Smic (il salario minimo), lo statuto della funzione pubblica e i regimi speciali delle pensioni.

Insomma, la Francia ha ancora solide fondamenta e buoni muri perimetrali per far bruciare la casa, ma non potrà durare a lungo. Prima o poi, pagherà per il suo immobilismo, finendo di morire, di troppo Stato.