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In gennaio si è tenuto per la cinquantesima volta a Davos il Forum economico mondiale (WEF). Come sempre, ampia la copertura mediatica, e come d’abitudine le critiche sulle assise del capitalismo. Che giudizio dare? Tre sono gli aspetti che caratterizzano il WEF. Il primo è quello relativo all’operazione di marketing. Summa cum laude e felicitazioni al geniale inventore di questi incontri: Klaus Schwab. Il riuscire a radunare i potenti della politica e dell’imprenditoria mondiale a Davos che non è al centro e neppure il posto più attraente del mondo, che dista oltre due ore di strada dall’aeroporto di Zurigo, o se volete a due ore e mezzo in treno, oltretutto d’inverno (bella la neve, ma un freddo boia) non può che suscitare ammirazione.

Il secondo aspetto è pure da considerare il risultato di un eccezionale intuito. Infatti, importanti uomini di governo e manager di livello mondiale confermano la convenienza di poter incontrare nello stesso luogo e nell’arco di pochi giorni le loro controparti evitando viaggi individuali (e talvolta pastoie protocollari) che impegnerebbero complessivamente qualche settimana, senza dimenticare la possibilità di qualche incontro discreto e che l’ufficialità renderebbe più complesso.

Vi è infine il terzo aspetto. Klaus Schwab, uomo di cultura con più lauree, ha anche legittime aspirazioni intellettuali. Lo aiuta il fisico che esprime un’occhialuta severità e permette di vederlo nel ruolo di un inflessibile professore o di uomo di Stato del Nord Europa dell’inizio del secolo scorso. Da intellettuale (e anche un po’ da professore) ogni anno presenta e impegna i convenuti a Davos a dibattere su un tema che lui ritiene di interesse mondiale. In questa impostazione vi è sicuramente del marketing (niente di male) ma certamente la riflessione e la passione dell’intellettuale e forse un poco di sopravvalutazione della propria influenza. Fin qui tutto bene.

La mia critica è rivolta piuttosto alla trattazione dei temi come è successo non solo quest’anno. È un errore che le assise del potere e (a torto ritenute) del capitalismo cerchino accondiscendenza e simpatia. L’inclinazione di un certo establishment di blandire e apparentemente convenire a parole, di dare qualche concessione alle controparti critiche è doppiamente pericolosa. Da un lato in taluni esprime l’arroganza di una certa concezione del potere – sì va bene mostriamoci accondiscendenti, ma poi facciamo quello che vogliamo noi -, nel contempo tradisce la carenza di cultura e impegno volto a difendere i propri valori e a trovare risposte e soluzioni originali alle richieste del proprio tempo e della società.

Purtroppo l’élite attuale allo sforzo dell’originalità preferisce le nebbie dell’ipocrisia. Lo scorso gennaio a Davos a proposito di clima hanno parlato Greta e Trump. Mi astengo da commenti e lascio la parola ad un intellettuale di notorietà mondiale: il professor Niall Ferguson sul «Sunday Times» (ripreso dalla NZZ) ha scritto che, dopo un paio di bicchieri di vino, nove su dieci dei suoi interlocutori del mondo dell’economia partecipanti all’incontro di Davos, trovavano il discorso di Greta impossibile mentre le affermazioni di Trump complessivamente non vengono giudicate male. Ferguson definisce questo attuale sdoppiamento di atteggiamenti quale «dissonanza cognitiva», io più sempliciotto la chiamo ipocrisia. Senza dimenticare che tale conformismo è spesso originato dal timore del giudizio nell’ambito della società, allorché pur legittime tesi vengono erette, talvolta per faziosità, a verità insindacabili che non è ammesso mettere in discussione. Si rischia l’ostracismo.

Simili considerazioni valgono per l’altro tema trattato a Davos, quello degli stakeholders con il quale si pretende di anteporre gli interessi di tutti coloro che hanno a che fare con una società anonima a quelli degli azionisti, cioè dei proprietari che rischiano i loro soldi. Non entro nel merito, l’ho già fatto a suo tempo. Mi permetto però di suggerire che forse le giovani generazioni non ricordano che abbiamo già avuto un modello nel quale tutti i cittadini erano stakeholders di tutte le società in attività nel Paese: quello comunista. Il plateale fallimento non dovrebbe venir dimenticato. I Blair, Clinton, Schröder si sono successivamente illusi di poter inventare un capitalismo social-democratico, pure senza successo. Si sono sognati che si potesse essere incinti ma non troppo.

Disturba nei dibattiti di Davos una certa inclinazione a voler ingraziarsi gli avversari del nostro sistema con forme di cedimento apparentemente progressista, che non convincono comunque chi la pensa in altro modo, mentre si dovrebbe dare maggiormente la parola e rappresentare con maggior rigore e convinzione la cultura dell’economia di mercato. Il pericolo è che Davos diventi la palestra, secondo Ferguson, della dissonanza cognitiva, per me, di una perniciosa ipocrisia.

Pubblicato nel Cdt e riproposto con il consenso dell’Autore e della testata