Nel 1997 l’ex colonia inglese di Hong Kong ritornò alla madre patria: la Repubblica Popolare Cinese. Un altro tassello sulla via del completamento dell’unificazione ed indipendenza della Cina martoriata dal “secolo delle umiliazioni” e brutalizzata sia dal colonialismo selvaggio delle potenze occidentali,  in primis l’Inghilterra verso la metà del 19esimo secolo, sia dalla brutale invasione giapponese iniziata nel 1937 con il famoso “incidente del ponte Marco Polo”.

Il ritorno di Hong Kong alla Cina fu un’operazione complessa negoziata fra due grandi leader politici: Margareth Tatcher e Deng Xiaoping. La “iron lady” non intendeva abbandonare la colonia al suo destino e pretendeva garanzie, perlomeno per un certo periodo di tempo. Vedeva la difficoltà di integrazione fra un sistema autoritario e comunista con un modello democratico basato sulle “rule of law” (governato dalle leggi) e non uno “ruled by law” (governato con le leggi ad hoc).

Democrazia contro Autoritarismo. Deng sostenne che alla fine del periodo di autonomia, la Cina sarebbe già diventata un paese democratico e quindi l’integrazione sarebbe stata facile. Dal compromesso nacque il modello “one country, two systems” (per 50 anni un paese due sistemi), cioè una bandiera sola, quella cinese. Hong Kong, si ricorda,  è Cina a tutti gli effetti, ma due modelli.

Hong Kong sarebbe diventata una provincia autonoma e mantenuto il suo apparato di governo – la basic law – dotata di un suo parlamento con limiti di legislazione escludendo materie di relazioni internazionali.

Era però evidente che i “due sistemi” non erano graditi (da molti cinesi della RPC)  e non sarebbero resistiti se ad Hong Kong avessero esagerato oppure se la Cina avesse voluto cambiare le carte in tavola.

C’è stato un primo tentativo, oggetto di scontro nel 2003, su una questione di leggi di sicurezza. Da Pechino volevano imporre norme più stringenti.  La veemente protesta dei cittadini fece però cadere il progetto dopo altri alti e bassi.

Due  anni fa il “casus belli”. Pechino, tramite la sua governatrice Carry Lam, intendeva proporre una legge che avrebbe consentito di processare a Pechino eventuali incriminati per reati politici. La conseguente protesta pubblica che abbiamo vissuto a seguito di ciò è stata molto violenta.

Ai cittadini è apparso ingiusto che appena dopo 23 anni dalla “reversione” si  fosse  già al capolinea, ma Pechino era decisa a “stringere i bulloni”.  Non solo per il valore economico della regione autonoma (centro finanziario primario e  porta privilegiata per la Cina), ma perché era preoccupata che un’eventuale sconfitta politica potesse contagiare altre regioni. Le proteste, anche a causa della virulenza nel reprimerle da parte della polizia, chiedevano più democrazia, più indipendenza e “rule of law”. Ultimamente gli scontri si sono attenuati per via del coronavirus;  la distanza sociale non si confà con le proteste, ma tutti sanno che il fuoco latente arde sotto le ceneri..

Giovedì scorso sia il People’s Daily che l’agenzia statale Xinhua richiamavano il governo ad “estirpare” il tumore “del sentimento pro indipendenza” ad Hong Kong. Preparavano il terreno per la decisione puntuale che il portavoce del Congresso dei Popoli in sessione per una settimana (3000 delegati con tutta la leadership del Paese) ha annunciato, cioè che ad Hong Kong verrà applicato il sistema unico per la “sicurezza nazionale” vigente in tutto il paese. Ivi inclusa, si prevede, una presenza fisica dell’apparato per la sicurezza nazionale (una specie di KGB ante literam).

Sarebbe l’inizio della fine dei “due sistemi”. Una notizia ferale per la provincia  autonoma di Hong Kong. La decisione non sarà presa bene dagli hongkongesi così gelosi della loro autonomia ed anche per il business che è la raison d’être.

Questa volta con un intervento pesante del Governo centrale che di fatto abolirebbe le autonomie.

Intanto da sabato sono incominciate le proteste, per ora contenute. Si registrano comunque 150 arresti che si aggiungono ai precedenti (da giugno 2019 ad oggi sono stati arrestati 8300 cittadini, dai 13 agli 81 ann).

Di questi, 1600 sono stati incriminati, 595 sono condannabili (ricordiamo che il reato di sedizione può essere punito con pene fino a 10 anni di reclusione).  Da sottolineare che il  grande successo elettorale di gennaio a Taiwan (pro indipendenza) è anche effetto di ciò che è successo ad Hong Kong e  quindi Hong Kong deve essere richiamata all’ordine prima che sia troppo tardi.

Purtroppo sembra essere l’inizio della fine di “un paese, due sistemi”. L’anelito per mantenere le libertà democratiche sancite dall’accordo del 1997 per 50 anni potrebbe morire di morte prematura, speriamo non dolorosa.

Chris Patten, l’ultimo governatore britannico che nel 1997 consegnò le chiavi della ex colonia a Pechino ha dichiarato che “la Cina ha tradito Hong Kong…….. e che è ora che l’Occidente la smetta di fare kowtow (inginocchiarsi) alla dittatura di Pechino”.

Vittorio Volpi