Seduta di lunedì 25 maggio nella sala B del Palazzo dei Congressi di Lugano 

 

Parto dalla fine. Dalla morte. Da racconti sentiti, da interviste lette e da testimonianze personali fattemi, il peggio di questa pandemia è il morire soli; una solitudine per chi se ne va e un dramma per chi resta. Molti che se ne sono andati avrebbero voluto avere ancora un momento per aggiustare qualcosa, dirsi qualcosa, perdonare un torto, chiedere scusa, guardarsi, toccarsi, abbracciarsi. Lo stesso vale simmetricamente per chi rimaneva.

Una malattia terribile che, oltre la vita ha rubato anche questa ultima possibilità di pietà umana. Grazie a Dio in quei luoghi erano e sono attive delle persone straordinarie, che magari solo con lo sguardo intenso fuori dalle mascherine, sono riuscite a dare calore al cuore di chi se ne stava andando; dobbiamo essere loro grati per tutto quello che fanno per salvare i pazienti, ma in particolare grati per questo difficilissimo compito di colmare l’ultimo varco tra la vita e la morte.

Permettetemi per sintetizzare questo aspetto, una testimonianza a me fatta da un amico medico impegnato alla Carità di Locarno. Mi disse: un giorno una signora anziana, ancora lucida, ricoverata in cure intense, con malattie pregresse si è resa conto che se ne stava andando. Che il tempo si faceva ormai breve, e la sua ora era arrivata. Entrando da lei, mi misi a pensare e a cercare una parola di conforto per lei, ma cosa si può dire? Sei medico, sai cosa sta succedendo e lei sa benissimo cosa sta accadendo, cosa dici? Entro, con mille se e ma, istintivamente le porgo la mano alla quale lei si aggrappa stringendola a più non posso; certamente aveva paura di ciò che stava succedendo. Poi mi chiese cosa il Papa diceva, e le dissi che aveva detto di fare un gesto d’affetto alle persone sole delle cure intense; allora lei con un ultimo scatto mi fece una carezza. Lei a me! Lei voleva consolare me! E aggiunse che la faceva come se fossi stato suo figlio, e per consolare il medico.

Questo episodio per dire che dobbiamo essere pronti ognuno nel ruolo che ci si ritrova addosso a coltivare l’umiltà del medico che non sa cosa dire, affinché possiamo farci sorprendere e stupire dal gesto imprevisto e da molte soluzioni imprevedibili, come quella carezza inaspettata della signora morente.
Solo un imprevisto ci salverà, come scriveva Montale nella poesia “Prima del viaggio”, ma dobbiamo permettergli di entrare nella nostra vita.

Siamo abituati a che se le nostre formule scientifiche o politiche non quadrano con la realtà, trucchiamo la realtà così da farla entrare nelle nostre formule. Questo è il rischio più grande che possiamo correre nell’affrontare questa pandemia; il rischio di perderci in divisioni teoriche inutili, rincorrendo mille rigagnoli di soluzioni comunque parziali.

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Il Governo non ha fatto tutto giusto, lo SMCC non è depositario dell’infallibilità, la delega plenipotenziaria non mette nessuno al riparo di errori, di sviste. Ma né loro né noi siamo in grado di scegliere con certezza assoluta cosa sia giusto e cosa sia sbagliato; nessuno di noi è mai stato confrontato prima di oggi con una cosa simile, e nessuno fuori da quest’aula, in Ticino e altrove, può affermare che avrebbe fatto meglio; chi lo afferma mente sapendo di mentire. Anche per questa ragione abbiamo presentato un’iniziativa per regolare meglio l’eccezionalità dello Stato di necessità, affinché il “governo delle leggi” prevalga sulla tentazione del “governo degli uomini” o peggio del “governo delle opinioni”.
Siamo alla ricerca, ovunque, di soluzioni e i nostri limiti ci fanno avanzare a tentoni. Il Coronavirus ci ha fatto piegare la testa e mettere in ginocchio, non siamo quei superuomini che da alcuni decenni pensavamo di essere diventati. Non siamo i padroni e i manipolatori della realtà a nostro piacimento; dobbiamo ammettere che la realtà è più ricca e pericolosa di qualsiasi nostra fantasia, supposizione, programmazione.

Solo ammettendo di essere fallibili e imperfetti riusciremo a domare la forza distruttrice del virus. La fallibilità e l’imperfezione ci consentono di tentare, di provare vie inesplorate, ci danno la libertà di farlo; l’infallibilità e la perfezione ci legano invece mani e piedi alla colonna della stoltezza. L’unica scelta vera che abbiamo di fronte è comportamentale, attitudinale: da una parte la speranza per accogliere l’imprevisto, dall’altra la supponenza per imporre la preveggenza. Da una parte la fiducia nel prossimo e la libertà e dall’altra il sospetto e il controllo. O come dissero Adam Smith, Herbert Spencer prima e Ludwig von Mises poi: da una parte la cooperazione volontaria e di là la cooperazione coercitiva. A noi la scelta.

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Certamente ci sarà un dopo Corona virus.
Detto questo, le decisioni che ci vogliono devono essere giuste, efficaci ed efficienti. Non perché c’è stato il virus; ma perché sono giuste per sé. Sono necessarie per ridare spinta a questo Cantone che già prima del virus si trovava su una dinamica di forza di inerzia che andava riducendosi di stagione in stagione (declino controllato).
Sappiamo che il Covid 19 ha danneggiato la nostra economia e fortemente frenato il processo di crescita. Il lockdown ha comportato sacrifici economico e sociali per tutti.

La disoccupazione parziale è salita alle stelle, gli Istituti economici hanno rivisto fortemente al ribasso i valori del PIL per quest’anno e il prossimo; di certo gli Enti pubblici dovranno contabilizzare dei deficit importanti e assumersi molti debiti; molte aziende potrebbero chiudere o ridimensionarsi, e soprattutto molti lavoratori e molte famiglie stanno vivendo nell’incertezza, e il ceto medio ha paura e i giovani sono smarriti.

Come tutti, anche noi dell’UDC abbiamo in mente e vorremmo proporre delle misure per risollevare il Canton Ticino al più presto e tornare come si dice “alla normalità”. Ma noi ci chiediamo anche cosa fosse “la normalità” e se quella che abbiamo definito normalità debba ad ogni costo essere riprodotta in scala uguale anche per il futuro prossimo.
Ad esempio, il Covid ha messo in luce: il mercato del lavoro snaturato e inceppato deve essere seriamente messo in “revisione”; come pure tutto ciò che riguarda le relazioni e la dipendenza con l’estero; il sistema sanitario (che ha retto bene) ma che nella sua dotazione di risorse tecniche e umane ha messo in luce anche dei rischi di “rottura” importanti; la gestione scolastica approssimativa, e altro ancora; come le relazioni tra i poteri dello Stato, il federalismo. Insomma, ci sono molti campi che meriteranno degli importanti approfondimenti.

Per il rilancio ci permettiamo di segnalare e invitare a dare un colpo di acceleratore a una ventina di nostri atti, già presentati e non ancora evasi, con la convinzione che se prima del Covid erano utili e necessari, ora con il bisogno di rilancio diventano indispensabili. Campi questi che richiedono un notevole coinvolgimento oltre che di addetti ai lavori e di politici, anche della società civile dovendo con essa trovare il massimo livello di condivisione.

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Siamo però anche convinti che, oltre a dire cosa e come il rilancio deve essere strutturato, dobbiamo fermamente, ribadire cosa non si deve assolutamente fare:

1) Impedire la selezione economica del mercato con misure di accanimento terapeutico; evitiamo di tenere in vita artificiale attività bollite e ditte stracotte.

2) Stravolgere la rete di aiuti sociali svizzeri con invenzioni comuniste; evitiamo idee economicamente deleterie e socialmente devastanti quale il reddito di residenza o affini.

3) Sprecare aiuti finanziari/sussidi/investimenti, i soldi degli altri, a pioggia di tipo congiunturale, anziché per la trasformazione strutturale.

4) Abbandonare l’equilibrio finanziario cumulando deficit; i debiti di oggi sono le imposte di domani (peso sulla prossima generazione e peso sulle aziende).

5) Allargare, con la scusa dei fondi di rilancio, l’intromissione dello Stato e della burocrazia nelle decisioni imprenditoriali private.

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Adesso ci è chiaro: nessuno da solo ci può tirar fuori dalla crisi post Corona virus; come è chiaro che non lo potrà fare un sistema politico dirigista in permanente “stato di necessità”. È tempo e ora di passare dal “loro” dicono, decidono, fanno; al “noi” diciamo, decidiamo, facciamo.

La società civile deve riprendersi, attraverso il principio costituzionale della sussidiarietà appena votato dal popolo: il rischio della libertà, la capacità di progettare, la responsabilità verso la generazione che segue, il diritto di provarci e sbagliare, e il dovere di rispettare le regole dello Stato di diritto. Stiamo in guardia dalle facili derive dirigiste bollate con “per il bene di tutti”; come diceva Friedrich von Hayek, in “La via della schiavitù” del 1944: “chi detiene tutti i mezzi, determina anche tutti i fini”.

Concludendo. C’è un altro virus che aleggia nell’aria, forte e robusto: quello del “ponte levatoio del castello”. Cioè l’illusione che chiudendoci dentro e buttandoci nelle braccia dello stato ci salveremo. In altre parole, autarchia economica e statalismo politico. Due scelte catastrofiche e disumane, che nel secolo scorso nella Russia sovietica, nella Germania nazionalsocialista e nell’America del New deal della grande depressione; hanno prodotto povertà e decine di milioni di morti. La tentazione di pianificare a colpi di decreti l’economia: limitando la libertà di scelta di chi Domanda, limitando la concorrenza tra chi Offre e truccando i prezzi; è istintiva e purtroppo troppo grande ovunque. Fermatevi! Otterremmo di sicuro un disastro economico e sociale.

L’economia del XXI secolo assomiglia sempre più a un rodeo, che a un giro sul pony del circo. Gli effetti ottenuti con l’interventismo potrebbero essere anche molto diversi e tristi rispetto a quelli sperati.
C’è invece una misura morale, efficace, libera, gratuita e individuale, che tutti possono adottare, da subito e senza decreti dello Stato: quella di provare a comportarsi in ogni ambito, come se fossimo la penultima generazione, anziché l’ultima!

Post-scriptum: se siamo uno Stato di democrazia liberale, dobbiamo riflettere, oggi, come poche volte prima, sui due termini democrazia e liberale; su ciò che Ortega y Gasset diceva quasi 100 anni fa:
la democrazia è il sistema con il quale si sceglie a chi dare il potere; il liberalismo è il sistema con il quale si decide quanto potere concedergli.

Sergio Morisoli, capo gruppo UDC