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Vi sono concetti che a menzionarli suscitano reazioni categoriche, emotive, addirittura violente tra sostenitori entusiasti ed avversari critici ed irriducibili. Uno di questi è la globalizzazione anche per il valore simbolico assunto. Questi atteggiamenti che rendono difficile il dialogo tra le parti, la ricerca di soluzioni ragionate, sono spesso la conseguenza di una mancata completa conoscenza dei termini e della fattualità. Innanzitutto dobbiamo evitare di fare confusione tra due diverse globalizzazioni, quella economica e quella politica anche se talvolta si trovano in contatto.

La globalizzazione economica è figlia di due libertà, quella dei commerci e quella dei movimenti di capitali, le quali a loro volta hanno massicciamente contribuito al miglioramento delle condizioni di vita a livello mondiale dall’ultimo dopoguerra. Impressionante l’impatto nei Paesi retti precedentemente da sistemi comunisti dopo l’implosione dell’Unione Sovietica con aumenti del tenore di vita e massiccia riduzione della povertà assoluta.

Ovviamente al mondo niente è perfetto e men che meno il genere umano. Pure la globalizzazione ha le sue luci e le sue ombre a dipendenza anche da come viene applicata. Produrre magliette in Cina costa meno che nell’Italia del sud o nella Spagna, con benefici per tutti: occasione di lavoro e sviluppo per i cinesi, prezzi più convenienti e risparmio per il consumatore occidentale, possibilità per i Paesi ex produttori di disporre di mano d’opera da utilizzare in attività con margini di utile e retribuzioni più interessanti. Poi la Cina, com’è stato il caso, diventa cara e la produzione passa al Bangladesh con effetto benefico per un Paese poverissimo.

Questa la presentazione semplicistica anche se corrisponde molto alla realtà. Ma vi sono aspetti problematici quando i vantaggi concorrenziali dipendono dalle differenti legislazioni nei diversi Paesi (sul lavoro, previdenziali, assicurative) che garantiscono indebite agevolazioni competitive. Talvolta questi divari stimolano ad aumentare la produttività con benefici generali. Aggiungiamo atteggiamenti protezionistici dell’uno o dell’altro Stato, gli ostacoli, i ritardi, le vessazioni burocratiche. Quindi non sono solo rose. Un’accusa spesso formulata contro la globalizzazione è che creerebbe disoccupazione: può essere temporaneamente vero specie per realtà politiche che non hanno preparato la transizione. Concludendo, gli enormi vantaggi procurati nel corso dei decenni dalla globalizzazione sono innegabili, come sempre vi possono essere dei danni collaterali che bisogna cercare di attenuare.

Il quadro generale di oggi è molto difficile e turbato e le tentazioni del facile protezionismo trovano adesione e riappaiono guerre commerciali come quella innegabile (e che verrà continuata sia pure in maniera meno rozza se Trump non venisse rieletto) tra USA e Cina. Non riconoscere – pur con tutti i possibili lati negativi – il contributo della globalizzazione allo sviluppo del nostro benessere vorrebbe dire negare l’evidenza seguendo la via dei pregiudizi.

Mentre la globalizzazione economica si basa sull’esercizio e sviluppo di libertà con tutti i rischi inerenti, quella politica si basa sulle teorie mondialistiche che per la loro realizzazione riducono le libertà individuali e di singoli Stati a favore di uniformità burocratiche, si basano su un multiculturalismo che vorrebbe annullare la ricchezza della diversità, riducono i diritti democratici a favore della tecnocrazia e di un presunto maggior valore degli «esperti» nelle decisioni. Reagendo ad innegabili esigenze di soluzioni extra-nazionali per problemi che concernono il mondo intero o gran parte di esso, si pretende che le soluzioni non possano che essere mondialiste e costituite da gabbie burocratiche uniformi per l’intera umanità. Potremmo considerarla una nuova forma di colonialismo. Si avversa decisamente quella molla per lo sviluppo che è la concorrenza dei sistemi, si rende impossibile la partecipazione tramite le istanze della democrazia da parte dei cittadini alle decisioni. Con il pretesto della complessità dei problemi e dell’impatto in più Stati o zone mondiali si cancellano identità e diritti mortificando e tentando di annullare la ricchezza della singolarità.

Si è creata una rete di strutture mondiali – alcune di indubbia utilità quando non superano le loro competenze – o raggruppamenti arbitrari di Stati, vedi ad esempio il G20, dove orwellianamente gli animali sono tutti uguali ma alcuni più uguali degli altri e ai piccoli non resta che abbozzare. Ciò ha creato e valorizzato una tecno-burocrazia a livello mondiale costituita da esperti, quasi sempre di indubbia competenza, la cui visione è ben distante da quella della democrazia partecipativa.

Il mondo sta cambiando sulla spinta di un efficientismo (spesso accompagnato da ritardi e intoppi burocratici, da lotte tra i poteri forti) che va a scapito di forme federaliste e di collaborazioni più sofferte, più lente, zeppe di ostacoli ma che finora hanno dato un senso alla parola cittadino. Per il nostro futuro economico vediamo di dare ragionevolmente spazio alla globalizzazione economica che continuerà ad arricchirci, attenti che questi risultati non vengano compromessi da un centralismo mondialista antistorico e che riduce i piccoli Stati ad esecutori e controllori di decisioni altrui.

Tito Tettamanti

Pubblicato nel CdT e riproposto con il consenso dell’Autore e della testata

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L’articolo di Tito Tettamanti, come sempre illuminante, ci induce a porre una domanda cruciale: in quale misura la globalizzazione economica (benefica) indurrà progressivamente una globalizzazione politica (nefasta)?

Il “centralismo mondialista”, che Tettamanti definisce “antistorico”, per molti politici ed intellettuali attivisti costituisce… “il fine storico dell’umanità”!