di Friedrich Magnani

Il nuovo Recovery Fund? Un buon risultato, ma non è tutto oro quel che luccica e l’Italia, dovrà comunque fare da sé, con più debito. A primo impatto, il risultato del nuovo piano, pone nell’immediato, alcune perplessità. Com’è possibile che la quota dei contributi a fondo perduto sia rimasta invariata (rispetto alla proposta Von Der Leyen), malgrado la sforbiciata all’intero pacchetto di sussidi (da 500 a 390 miliardi di euro)? Il criterio applicato, per la destinazione dei contributi, è quello del tasso di disoccupazione medio, per gli anni 2015-2019 e non più, la caduta del pil nel 2020. Quindi, ci ha sicuramente guadagnato l’Italia, ma ancor più, Spagna e Grecia, che in proporzione al loro contributo al bilancio UE, portano a casa, un miglior risultato.

L’Italia quindi, riceverebbe complessivamente, 209 miliardi di euro, al posto dei vecchi 172, di cui 81 in sussidi (invariati) e 127 in prestiti. Per quanto riguarda i sussidi bisogna però tenere conto del risultato, al netto del contributo al bilancio pluriennale europeo 2021-2027. Se la quota rimane quella attuale, ma si parla già di aumentarla, l’Italia corrisponderebbe per un 13% dell’intero pacchetto di contributi (390), per un ammontare di 50,7 miliardi. Per cui, facendo 81-51, potrebbe ricevere circa 30 miliardi di euro.

foto Wiki commons (fonte: Governo italiano)

Per di più, a pagina quattro del documento approvato dal Consiglio europeo, si legge che la Commissione è autorizzata, in via provvisoria, a chiedere agli Stati membri, maggiori risorse, se non riuscirà ad ottenerle attraverso i propri strumenti, (gli eurobonds e le nuove imposte verdi, digitali e finanziarie). Certo, l’aspetto innovativo, e per certi versi, rivoluzionario, è che alla Commissione è conferito il potere di contrarre prestiti sui mercati dei capitali (gli eurobonds appunto), per un ammontare complessivo di 750 miliardi di euro, con scadenze fino al 2058.

Detto ciò, si arriva alle condizionalità, pagina cinque. Gli Stati membri, dovranno presentare entro fine settembre, i Piani nazionali per la ripresa e la resilienza (programmi di riforme e investimenti per il periodo 2021-2023). I piani verranno valutati dalla Commisione, entro due mesi dalla presentazione. Si otterà più punteggio, se si sono seguite le raccomandazioni della Commissione, specifiche per Paese, e se i piani terranno conto del contributo effettivo alla transizione verde e digitale.

Poi ci sono le procedure di approvazione, con svariati palleggi tra Commissione e Consiglio europeo, con la possibilità che uno Stato membro possa tirare il freno d’emergenza, far ridiscutere tutto e far rinviare al summit successivo. Se non si sarà trovata una soluzione entro tre mesi, l’ultima parola spetterà comunque alla Commissione. Al Consiglio europeo, è affidato quindi il ruolo di cane da guardia. I paesi frugali hanno ottenuto la corsa a ostacoli per l’approvazione dei piani nazionali, ma non il potere di veto. Riguardo ai tempi invece, il documento parla di erogazioni al 70% per il 2021 e il 2022 e al 30% per il 2023. Quindi soldi, che non arriveranno subito.

Alla fine, verrebbe da dire, tanto rumore per nulla. Secondo Pagella Politica, l’Italia ha già accumulato, tra i vari decreti, un extra deficit di 80 miliardi di euro. Rispetto al 2019, si stima che nel 2020, il Pil italiano, possa calare di oltre 126 miliardi di euro. Sempre per quest’anno, le entrate caleranno di quasi 49 miliardi di euro e l’indebitamento netto (deficit), salirà a circa 173 miliardi di euro (10,4 % in rapporto al Pil). Dati non incoraggianti, rispetto ai quali, trenta miliardi, ipotetici, tra uno-due anni, con polemiche varie e corse a ostacoli, rischiano di coprire solo una parte del debito.

A vedere il bicchiere mezzo pieno, è stato un buon risultato, impensabile solo pochi anni fa. Che i Paesi frugali, non si fidino, è in parte giustificabile, dalle finanze allegre a cui l’Italia è sempre stata abituata, con una spesa pubblica e previdenziale, andata fuori controllo, già da molti anni. Né tanto meno, si può sollevare all’Olanda, la questione del dumping fiscale, se da noi l’evasione, la fa da padrona. Verrebbe da dire, perché non la fa anche l’Italia, una buona concorrenza fiscale, con una riduzione e una semplificazione delle aliquote. In questo modo, visto l’attimo di distrazione dell’Europa e l’ombrello della BCE, permetteremmo agli italiani di pagare più tasse, consumare di più e ridurre finalmente il debito, altro che Recovery Fund.