La pandemia ed i conseguenti blocchi dei viaggi,  sia per le persone che per le merci, ha reso evidenti i danni alla cosiddetta “supply chain”(catena di approvvigionamento). In altre parole, non arrivando le parti o i prodotti finali (per il  lockdown, zone rosse e quant’altro) in molti paesi le produzioni si sono fermate.

Ciò ha causato danni notevoli alle imprese ed alle economie. Si calcola che per alcuni prodotti prima che siano finiti, i viaggi dentro e fuori da un paese possono essere numerosi; quindi,  in una situazione del genere, il rischio diventa la paralisi della produzione e di conseguenza della distribuzione.

È diventato evidente il rischio della “delocalizzazione” delle produzioni (produrre in un paese esterno al tuo) come mai si era ipotizzato.

Essendo nato il problema con il blocco delle produzioni in Cina, primo paese ad essere colpito dalla pandemia e definita spesso come la “fabbrica del mondo”,  si è iniziato a pensare non solo al Covid-19, ma anche ad altri  fattori di rischio: politici, sanzioni, blocchi navali ed altri ancora.

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Un caso interessante da visionare è la reazione immediata del Giappone che con la Cina ha un rapporto commerciale gigantesco, di centinaia di miliardi di dollari oltre a parecchi investimenti industriali.

La mancata fornitura di parti per un paese come il Giappone che applica ed ha inventato il “just in time”, ovvero avere una riserva disponibile di componenti  limitata solo allo stretto necessario, (riuscendo a risparmiare sugli stocks dell’inventario e quindi ridurre i costi e garantire che le parti mancanti arrivino in fabbrica con puntualità cronometrica)  è stato un colpo da KO.

Veloce la risposta del combinato disposto “Stato-METI” (ministero dell’economia, commercio e industria) e “aziende”. Hanno tratto subito delle conclusioni: occorre riportare in casa le industrie strategiche oppure diversificare i paesi dove produrre e quindi, meno Cina.

All’uopo il Governo ha subito stanziato 2 miliardi di dollari per contribuire allo sforzo del rientro a casa o di diversificazione di paese come primo passo.

Detto fatto: 87 società stanno ricevendo già 653 milioni di dollari per portare le loro linee di produzione fuori dalla Cina. Circa 37 di queste aziende si trasferiranno nel Sud Est Asia, in Vietnam e Laos (la famosa marca di lenti Hoya). Sumitomo Rubber in Malaysia, mentre la Shinetsu Chemical porterà la produzione di “terre rare” in Vietnam.

Le altre 57 torneranno invece a casa nel Sol Levante. Ad esempio, la Iris Ohyama che produceva mascherine nella città porto di Dalian, provincia di Liaoning, ritorna alla sua base di Kakuda al nord del Giappone.

Le aziende che rimpatriano sono del settore dell’avionica , dei componenti per auto, fertilizzanti, farmaceutica e sono nomi importanti come Sharp, Terumo, Shionogi.

Come per molti paesi europei anche il Giappone ha subìto gravi danni al culmine della pandemia, anche per cose ritenute banali in tempi normali come le  mascherine, in gran parte importate dalla Cina.

Tanto per la globalizzazione che in certi momenti di turbolenze, come abbiamo visto, può paralizzare le linee di produzione e generare mancanze di prodotti essenziali.

Una  nota invece sui giapponesi. Come al solito quando c’è consenso su un problema, si muovono come un lampo nel cercare una soluzione, sempre all’unisono  e non a branchi come in altri paesi. È il concetto base per l’unica cultura giapponese: il gruppo sempre sopra l’individuo.

Per concludere, non  è difficile capire che ci sia altro dietro queste rapide decisioni e ricollocazioni di imprese fuori dalla Cina.

Gli scambi commerciali con la Cina in futuro continueranno ad essere di grande importanza e rilevanza, ma per gli investimenti industriali mai  più il Giappone li farà in settori strategici o di interesse nazionale.

La potenza economica e militare cinese non è più quella del secolo scorso, bisogna quindi – così pensano a Tokyo – prendere delle precauzioni.

La pandemiai ha fatto aprire gli occhi…..

Vittorio Volpi