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Riproposta con il consenso della testata

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Questa interessante intervista ci è stata segnalata da Giorgio Ghiringhelli, che la redazione ringrazia.

L’intervista è a nostro giudizio notevole perché il professor Baranzini si distanzia chiaramente dal “mainstream” dominante.

immagine Pixabay

Professor Baranzini, come mai il popolo svizzero è chiamato a votare su “un’immigrazione moderata”, quando il 9 febbraio 2014 una maggioranza (seppur risicata) degli svizzeri e dei Cantoni aveva approvato l’iniziativa “contro l’immigrazione di massa”? Perché questa insistenza, tanto più che la nuova iniziativa sembrerebbe all’acqua di rose rispetto a quella del 2014.

La risposta è semplice. Il Consiglio Federale e il Parlamento svizzero, sia perché l’orientamento dei parlamentari non è sincronizzato con quella dell’elettorato, sia per una ragione di Stato particolare, sia per paura di ritorsioni da parte dell’Unione Europea, nella legge di applicazione hanno disatteso la volontà dell’elettorato svizzero. Non hanno rispettato i risultati della votazione del 2014, per cui non è sorprendente che chi l’ha promossa voglia una ripetizione della votazione.

Una domanda molto importante è la seguente: la libera circolazione negli ultimi 13 anni ha o non ha portato dei vantaggi all’economia ticinese?

All’economia nazionale tutta intera probabilmente sì, almeno in termini di crescita economica. 600’000 posti di lavoro che sono andati agli immigrati dall’UE hanno permesso una crescita di dello 0,9% pro-capite annuale. Un risultato un po’ magro, ma comunque positivo. Ma questo processo non ha favorito la maggior parte dei Cantoni di frontiera. Infatti, dal 2010 al 2018 il salario mediano ticinese è passato dal 87% di quello svizzero all’82%, con un calo non da poco. Nel 2010 il salario mediano ticinese era di fr. 5’377 (Svizzera: fr. 6’212), e nel 2018 era di fr. 5’363 (Svizzera: fr. 6’538), quindi è addirittura diminuito. Se pensiamo che nel frattempo diverse spese obbligatorie, come i premi cassa malati, gli affitti e i trasporti privati, sono aumentate in modo sensibile, si capisce come il potere d’acquisto della famiglia media ticinese ne abbia sofferto.

Però c’è un dato interessante: l’economia ticinese sin dal 2007 ha generato in media quasi 3000 posti di lavori annuali; un record non da poco. Non è vero?

Certo, ma di questi 3’000 posti circa 2’500 andavano ai non residenti; e solo 500 ai residenti (svizzeri o stranieri). Forse è anche per questo che negli ultimi anni migliaia di giovani diplomati ticinesi sono andati a cercar lavoro oltre Gottardo. Purtroppo lo sviluppo del Canton Ticino in questi ultimi 13 anni (2007-2020) non ha portato ad un aumento delle esportazioni di beni (e molto probabilmente anche di servizi, vedi settore bancario). Le ragioni sono due: (1) la produttività dell’economia ticinese (come quella svizzera) è in contrazione; (2) la crescita della manodopera, soprattutto di non residenti, è in generale quantitativa e poco qualitativa. Sostituire due lavoratori residenti, magari anziani sopra i 55 anni, con tre non residenti riduce i costi per l’azienda, ma non accresce la produttività del sistema.

Eppure l’apporto della manodopera frontaliera nel settore della sanità è senz’altro decisivo, e non solo per il Ticino. Senza questi lavoratori frontalieri vari Cantoni svizzeri di frontiera non avrebbero potuto far fronte alla pandemia di covid 19, e dobbiamo essere grati ai governi dei Paesi confinanti che non hanno trattenuto questi operatori per i loro bisogni nazionali.

Concordo assolutamente. Per questo è ancor più importante formare i giovani residenti in questo campo, perché la dipendenza dall’estero potrebbe costarci caro in future occasioni. In questi giorni si stanno svolgendo gli esami per l’accesso alle facoltà di medicina svizzere: 1’100 posti quando noi abbisogniamo di nuovi 1’800 medici all’anno. Il numero chiuso nelle Facoltà di medicina e nelle scuole di formazione sanitaria fa a pugni con i bisogni futuri della nostra società nei decenni a venire. Questo è un problema che la politica dovrà affrontare di petto.

La Svizzera, nel cuore dell’Europa, guadagna un franco su due grazie alle esportazioni di beni e di servizi (anche se non solo verso i Paesi UE). Provocare unilateralmente la caduta dei bilaterali non sarebbe un atto di follia, non arrischierebbe di riportarci indietro di diversi decenni?

Da economista, non ho mai sottovalutato l’importanza degli scambi con l’estero. Ma vediamo un po’ le cifre. Per quanto riguarda la bilancia commerciale (di beni), nel 2019 la Svizzera importava per circa 147 miliardi di Euro dall’UE, e ne esportava per circa 110 miliardi. Il saldo negativo per noi era di 37 miliardi di euro il che equivale circa ad almeno 300’000 posti di lavoro che noi ‘perdiamo’ con gli scambi con l’UE, che cioè ‘regaliamo’ all’UE. Posti di lavoro che l’UE è ben contenta di tenersi; così come è contenta di tenersi circa 1-1,5 milioni di posti di lavoro con gli scambi commerciali con il Regno Unito. Le industrie tedesche, che fanno la parte del leone, lo sanno benissimo e stanno facendo pressione sulla Cancelliera tedesca per evitare una hard-Brexit. Dunque non è giusto dire che un terzo delle nostre esportazioni va nell’UE; per le merci va solo il 16% del nostro PIL. (Cifre ancor più basse con l’uscita del Regno Unito dall’UE). Le nostre merci trovano grossi clienti nel Nord America, nel Medio ed Estremo Oriente, Cina, Giappone e crescono lì, e non nell’UE. I dati degli ultimi mesi del commercio estero svizzero confermano che le nostre esportazioni tirano bene nel Medio ed Estremo oriente, USA, ecc., ma non nell’Unione Europea.

Ma la bilancia commerciale non è tutto. Gli scambi con l’estero includono anche i servizi, settore nel quale la Svizzera è molto competitiva. Anche questo dovrebbe farci riflettere prima di compromettere gli accordi bilaterali.

Certo, eccome. La bilancia dei servizi comprende il turismo, i servizi bancari ed assicurativi, i brevetti, le poste e telefoni, l’energia elettrica, il pagamento degli interessi sui capitali, ecc. I dati sono da prendere con le pinze perché la nostra Banca Nazionale, che registra le transazioni, non dà la disaggregazione per ogni Paese, e i dati arrivano con ritardo di due anni. Il portale statistico dell’Unione Europea indica per il 2018 che noi esportiamo servizi verso l’UE per circa 65 miliardi di euro, e ne importeremmo per circa 105 miliardi. Con un saldo negativo di circa 40 miliardi di euro. E sono altri circa 300’000 posti di lavoro che la Svizzera lascia all’UE. Un’Unione Europea che non si è fatta scrupoli nel fare la guerra alle nostre banche, e che non interviene di certo contro la vicina Repubblica che non ci dà reciprocità nei servizi bancari. (Ma viene a chiederci soldi per la sua rete ferroviaria, e non disdegna le rimesse dell’imposta alla fonte dei frontalieri.)

Le conclusioni quali sono? È vero che l’Unione Europea ha il coltello per il manico per quanto riguarda le nostre esportazioni verso i suoi Paesi membri? Arrischiamo veramente di arrivare alla “canna del gas”?

I dati statistici indicati sopra confermano che la Svizzera esporta sì merci e servizi per circa il 28% del PIL verso l’Unione Europea, ma ne importa per circa il 38% con la peppatencia di almeno 600’000 posti di lavoro che lasciamo sul terreno dei nostri amici dell’Unione Europea. Se a questi aggiungiamo i 330’000 frontalieri che ogni giorno entrano in Svizzera, arriviamo a un totale di circa 930’000 posti di lavoro che l’economia svizzera garantisce ai paesi dell’UE. È vero che questi posti di lavoro generano reddito, contributi sociali e gettito fiscale per il nostro Paese, ci mancherebbe! Ma è altrettanto vero che garantiscono pane e companatico per quasi un milione di famiglie dell’Unione Europea. La Germania è ben cosciente di questo, ed ha ammesso che la libera circolazione con la Svizzera le dà un grosso vantaggio.

Ma non dobbiamo temere un irrigidimento dell’UE, che è confrontata con la Brexit e non vuole scendere a patti anche per questa ragione?

La bilancia commerciale del Regno Unito è negativa con l’Unione Europea. In altre parole gli acquisti dei britannici in particolare lasciano da 1 a 1,5 milioni di posti di lavoro in Germania: per questo la cancelliera Merkel cerca di evitare una hard-Brexit, perché questa vorrebbe dire una forte perdita di guadagno per l’industria (soprattutto automobilistica) tedesca. I francesi chiedono con prepotenza di poter continuare a pescare nelle acque territoriali britanniche (che appartengono al Regno Unito da secoli), e picchiano i pugni sul tavolo. Ma dimenticano che nella seconda guerra mondiale l’unica nazione che dal 1939 al 1941 si oppose a Hitler fu proprio il Regno Unito di Churchill. Gli inglesi persero centinaia di migliaia di soldati per liberare l’Europa. E se si arriva a una hard-Brexit, l’Unione Europea si potrà sognare i 40 miliardi di rimborso che l’UE ha imposto al Regno Unito per uscire. Una batosta per le spendaccione politiche comunitarie di Bruxelles. Alla cui prepotenza non tutti sono convinti di cedere.

Riprendiamo la domanda facendo riferimento a quanto un industriale svizzero famoso, Peter Spuhler, già consigliere nazionale UDC, ha affermato in una recente intervista. “L’UE non cederà su uno dei suoi pilastri più importanti come la libera circolazione delle persone”, prevede Spuhler, quindi l’UE attiverà la famosa “clausola ghigliottina” facendo cadere gli altri sei accordi dei Bilaterali 1. Il presidente di Stadler Rail aggiunge che nello spazio di un anno sarà quasi impossibile negoziare nuove intese e quindi si resterebbe in una situazione di incertezza giuridica che penalizzerebbe pesantemente la Svizzera. E fa l’esempio del ramo ingegneristico, dove la richiesta di specialisti non può essere soddisfatta con il personale domestico: “Se non potessimo più importare ingegneri”, conclude Spuhler, “dovremmo trasferire settori aziendali all’estero”.

Pur non conoscendo le esigenze specifiche del settore, non dobbiamo pensare che la fine della libera circolazione delle persone implicherebbe la fine della possibilità di avere professionisti che giungono da altre parti del mondo. Abbiamo esperti che giungono da tutto il mondo senza che con questi Paesi vi siano accordi di libero scambio. Difficilmente il nostro mercato del lavoro diventerà non attrattivo per certe figure professionali dall’oggi al domani (basta pensare in termini di salari). E difficilmente l’UE chiuderà i confini nazionali impedendo a professionisti di venire a lavorare in Svizzera. Lo stesso vale per il resto del mondo. D’altra parte il Signor Spuhler, davanti alla cui imprenditorialità mi inchino, non si è fatto problemi a delocalizzare parte della sua produzione nell’est europeo, in Bielorussia e in Cechia se non erro.