Monte Rushmore. Da sin. Washington, Jefferson, Theodore Roosevelt, Lincoln immagine Pixabay

La storia del mondo ci narra l’alternarsi di potenze che ne hanno avuto il dominio. Il potere dell’Inghilterra, che con il Commonwealth controllava gran parte del globo, è terminato definitivamente con l’ultima guerra mondiale, vinta anche moralmente grazie alla meravigliosa resistenza del popolo inglese negli anni Quaranta, ma che l’ha obbligata a dissanguarsi finanziariamente e a rinunciare ad una visione colonialista ormai inaccettabile, superata e oltretutto costosissima.

Il dominio è passato agli USA che già nei decenni precedenti avevano sviluppato un enorme potenziale economico e che alla fine della guerra sono stati chiamati alla responsabilità di dirigere e proteggere il mondo libero in conflitto con le mire espansioniste del comunismo sovietico. Il Paese però si è trovato successivamente confrontato con avvenimenti con i quali è iniziato il declino. La guerra del Vietnam (1965-1975), costata miliardi, non solo ha indebolito la forza finanziaria degli USA, ma ha pesantemente incrinato il fronte interno. Successivamente un pesante tarlo ha cominciato ad infrangere la compattezza delle società USA come realisticamente constatava Samuel P. Huntington nel suo libro del 2003 Who Are We? The Challenges to America’s National identity (quell’Huntington che aveva acutamente ipotizzato The Clash of Civilizations).

Dominante e prioritario è diventato negli USA identificarsi in una delle tante diverse minoranze: afroamericani, ispanici, asiatici, ebrei, islamici, femministe, gay, LGBT e altro, contrariamente agli emigranti di un tempo che avevano un’unica aspirazione: diventare americani. Questa frammentazione del fronte interno ha indebolito il Paese. Nel contempo il potere politico si è accentrato sempre più nei circoli di Washington ed in un numero ristretto di famiglie tipo Kennedy, Bush, Clinton, loro alleati e loro finanziatori (le campagne presidenziali costano al candidato centinaia di milioni di dollari). Le élite cosmopolite hanno dimenticato l’America profonda, il Middle West, le zone insensibili e poco interessate alle farneticazioni di un sinistrismo da salotto, hanno dimenticato quelli che con tatto da ippopotamo la signora Clinton chiamava i «deplorables» (i poveri cristi). Per Hollande, per contro, sono «les sans dents».
Superfluo chiedersi perché le classi più povere non votino per loro. I liberal della East Coast e della West Coast, gli esponenti del potere finanziario e mediatico di New York e Los Angeles hanno creato le premesse con la loro arroganza e insensibilità per l’elezione di Trump.

Invece di rendersene conto, fare atto di doverosa contrizione e riflettere come rimediarvi si sono irrigiditi nella difesa corporativa dei propri interessi e potere. Chi aveva votato per Trump era considerato un incolto che non aveva capito niente. L’arroccarsi in modo ottuso sulle proprie posizioni, l’assenza di autocritica, l’incapacità di rinnovarsi è tipica di sistemi di potere in decadenza.

Nei quattro anni si sono limitati all’antitrumpismo di maniera invece di elaborare un progetto politico di ampio respiro per il Paese e preparare e far crescere durante questo periodo un rappresentante di tale progetto, possibilmente non sospetto di collusione con i poteri di Washington, New York e Los Angeles, da candidare a presidente.

Non solo, ma con l’isterismo si è giunti ad atteggiamenti di esclusione inaccettabili in un Paese democratico. Che il responsabile della sezione «Opinioni» (che sottintende pluralità) del «New York Times» venga licenziato per aver pubblicato il parere di un senatore repubblicano che suggeriva l’intervento dell’esercito per mettere fine ai tumulti radicali negli USA è indice di una mentalità che non accetta divergenze di opinione. Parimenti preoccupanti le dimissioni, sempre dal «New York Times», di una editorialista del peso di Bari Weiss, bullizzata e osteggiata dai colleghi perché portatrice di una tesi più che condivisibile: che l’elezione di Trump è stata la conseguenza dell’arroganza delle élite americane dimentiche del Middle West, mentalità che aveva fatto della Casa Bianca un affare di famiglia con una candidata moglie di un ex presidente.

Ciò ha portato oggi questi centri di potere a proporre alla presidenza un ferro vecchio con vuoti di memoria che ha passato tutta la sua vita a rappresentare quell’establishment che una parte dell’America rifiuta. Si dice che fortunatamente avrà il sostegno della passata amministrazione Obama e anche questo, indipendentemente dalla competenza, tradisce un pensiero non certo di rinnovamento.

Trump-Biden, una politica USA che non sa trovare di meglio preoccupa: forse anche questo è indizio del declino. Declino che può durare a lungo – vedi Impero romano – con un esercito americano che è tuttora il più potente al mondo, vince le guerre ma perde la pace (esempio: Iraq). Una forza innovativa nelle tecnologie per il momento minacciata ma non raggiunta dalla Cina, una potenza economica sempre importante, il privilegio di disporre della moneta di riserva. Purtroppo però un Paese frammentato, indebolito e confrontato con estremismi e scontri tribali che dilaniano, con scuole pubbliche insufficienti ed un mondo accademico che propende per l’intolleranza e la censura. Un quadro di preoccupanti debolezze che preannuncia periodi di insicurezza per il resto del mondo.

Tito Tettamanti

Pubblicato nel CdT e riproposto con il consenso dell’Autore e della testata