Questo è il  primo articolo che l’Avvocato scrive per il Corriere sotto la direzione di Paride Pelli.

La linea di Tettamanti, maître-à-penser della destra liberale, non muta: egli è contrario all’Accordo quadro e, ancor più, all’ingresso del nostro Paese nell’UE. È ben vero che certi cori assordanti negli ultimi tempi si sono un po’ chetati. Ma lui non si fida (e, confessiamo, neppure noi).

La Brexit, parto con il forcipe, arduo per non dire miracoloso, è un punto a favore della minacciata indipendenza elvetica? Noi pensiamo di sì… ma i pericoli incombono ancora!

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Abbiamo reperito su Pixabay questa immagine che suggerisce (una speranza?) un “effetto domino”…

Il 24 dicembre l’accordo relativo all’uscita del Regno Unito dall’UE è stato firmato mettendo fine a negoziati iniziati nel 2016. Se si tiene conto che leggi, regolamenti, ordinanze varie, il «Corpus juris» dell’UE, pare riempiano più di duecentomila pagine, si capisce il perché della durata e quanto complicate possano essere state le negoziazioni. Comprensibili le valanghe di commenti, analisi, riflessioni dei media di questi giorni. Quelli svizzeri poi si sono diffusi anche sull’impatto che il risultato potrebbe avere sul progetto di Accordo Istituzionale tra noi e l’UE. Il Consiglio federale condiziona la firma a precisazioni e assicurazioni solo su tre punti: protezione dei salari, ampliamento del diritto alla socialità in relazione con l’accordo di libera circolazione, divieto di aiuti statali. Il fatto che contrariamente al testo per la Svizzera nell’accordo con l’Inghilterra non si preveda nessun ruolo arbitrale per la Corte di giustizia dell’Unione europea (CGUE), nessuna automatica assunzione di regole europee, e non si parli di eventuali ghigliottine, ha spinto persino la Presidente del Partito Liberale Radicale svizzero a chiedere una riapertura delle negoziazioni almeno sul coinvolgimento del tribunale europeo. Molte le voci in tal senso. I fautori della firma dell’Accordo da parte svizzera rendono però attenti sul fatto che la nostra posizione sarebbe differente da quella inglese. Loro si sono voluti staccare, noi per contro vogliamo continuare ad avvicinarci. Non nego che l’affermazione, anche per il non ben chiaro intendimento conseguente all’avvicinarsi, mi preoccupa, specialmente se si intendesse avvicinarsi all’adesione all’UE.

Foto Ticinolive

Autonomiesuisse, un’associazione che raggruppa diverse centinaia di imprenditori e industriali svizzeri e che si oppone criticamente all’Accordo Istituzionale, ha con apprezzabile celerità analizzato il testo a proposito di 65 punti di contrasto tra UK e UE. L’esame evidenzia che in 28 casi le ragioni inglesi hanno avuto il sopravvento, in 11 casi quelle dell’UE e in 26 si è raggiunto un compromesso. Risultato che dimostrerebbe che non negoziando con timorosa deferenza e non temendo rotture e ricatti minacciati da Bruxelles l’UE diventa meno intrattabile. Ma la rottura tra UK e UE era prevedibile, non tanto per l’idraulico polacco, gli scontri per i diritti di pesca, i sussidi per gli agricoltori francesi e così via, ma perché le due parti rappresentano due concezioni statuali antitetiche.

L’entrata dell’Inghilterra nell’UE (1973) è avvenuta più che per convinzione per cercare di contenere lo slittamento verso forme di centralizzazione con perdita di sovranità degli Stati membri, circostanza confermatami da politici inglesi con cariche di governo ai tempi della Signora Thatcher. Visto l’andamento dell’evoluzione da Maastricht in poi, per non lasciarsi assorbire perdendo la propria individualità all’Inghilterra non è rimasto che lo sganciarsi, indipendentemente dalle immediate conseguenze economiche, al fine di rimanere se stessa. L’Economist del 19 dicembre scorso ironicamente descriveva l’incompatibilità tra conservatori inglesi ed un’Europa nata nel 1957 democristiana (anche se il livello dei politici democristiani di un tempo è ormai un ricordo). Spigolosità, determinazione, attaccamento alla nazione centro della democrazia con le sue tradizioni dei primi in urto con la continua ricerca del compromesso, dell’accomodamento, delle frasi dai plurimi significati, con la politica dei piccoli passi, con una visione universalistica con centro spirituale a Roma, per i democristiani. Il nocciolo dell’incompatibilità è lo scontro tra due visioni inconciliabili oggi in atto a livello mondiale. Da un lato quella di un internazionalismo che privilegia il potere dei tecnocrati, che con la scusa della competenza vorrebbe limitare sempre più i diritti democratici e mortificare le sovranità statali, esempio classico l’UE. Dall’altro quella che difende il ruolo anche di piccoli Stati, che a fianco della potenza commerciale (talvolta accompagnata da finanze disastrate) dà peso ai valori, alle convinzioni, alla storia, alle radici, al ruolo dei votanti, in una parola alla democrazia. Scontro che ha creato pure in questi anni una pesante frattura tra l’establishment e le classi popolari con il loro disagio.

Come con l’Inghilterra, anche per la Svizzera evidente è l’incompatibilità tra le due concezioni. Si dice che interrogato da Kissinger per un giudizio sulla Rivoluzione francese Ciù En-lai, primo ministro di Mao, rispondesse: è ancora presto. Non lo voglio imitare, ma sulle conseguenze economiche per l’Inghilterra molto paventate dagli avversari della Brexit la risposta l’avremo tra un quarto di secolo. Forse si constaterà che la libertà dai lacci corporativi e centralistici pur con transitorie difficoltà offre alla fine migliori possibilità anche per affrontare il futuro liberi dell’asfissia di illogiche conformità, liberi di valorizzare processi tecnologici in atto secondo la propria volontà di rischio. L’Inghilterra non accetta la mortificazione di quella concorrenza tra Stati che, sia pure con lotte e costi, ha alimentato lo straordinario sviluppo ed i successi del nostro non uniforme Continente.

In qualità di svizzeri dovremmo esserle grati.

Tito Tettamanti

Pubblicato nel Corriere del Ticino e riproposto con  il consenso dell’Autore e della testata