In accordo con il tema del giorno sono andato a cercare nel web una definizione. Ho trovato:
“La censura è il controllo della comunicazione da parte di un’autorità, che limita la libertà di espressione e l’accesso all’informazione con l’intento dichiarato di tutelare l’ordine sociale e politico.”

Una buona definizione? Io direi che è corretta e sbagliata al tempo stesso. Quando Twitter e Facebook censurano il Tycoon, è forse tale censura l’azione di un’autorità (nel senso di autorità dello stato)?

Certamente no. Scendono in campo invece enormi e soverchianti potentati privati, il cui potere – di per sé non statuale – punta a trasformarsi in governo attraverso il condizionamento psicologico degli elettori. Se uno non è cieco, lo vede.

La diagnosi dell’Avvocato è lucida ed impietosa, ma possiede egli il rimedio a questi solenni guai? Si direbbe di no e, se ce l’ha, non lo svela.

PS. Segnalo il seguente passaggio (per scrivere una frase del genere ci vuole coraggio). Lui ce l’ha.

“In legittimi sentimenti tendenti ad evitare di esprimersi in modo spregiativo o discriminante, un certo mondo intellettuale di sinistra ha visto la possibilità di poter riprendere una superiorità dialettica persa con la sconfitta del comunismo.”

La mania (la schiavitù) del Politicamente Corretto nasce nell’Ottantanove?

immagine Pixabay

TITO TETTAMANTI  Conseguentemente all’assalto al Campidoglio del 6 gennaio scorso, i social media Facebook e Twitter hanno messo al bando gli account di Trump. Molti politici, la Cancelliera Merkel per prima, hanno espresso la loro preoccupazione per questa forma di censura esercitata da un potente cartello privato.

Vi è pure un’altra forma di insidiosa censura ormai dilagante nella società. Il male viene da lontano, già dagli anni ’80 quando – specie nelle università americane – si è diffuso il politically correct. In legittimi sentimenti tendenti ad evitare di esprimersi in modo spregiativo o discriminante, un certo mondo intellettuale di sinistra ha visto la possibilità di poter riprendere una superiorità dialettica persa con la sconfitta del comunismo.

Un po’ per disattenzione, mancanza di analisi critica, ma molto anche per pigra volontà di «buona pace» la società non si è resa conto del pericolo, aggravato dall’accettazione della nuova moda nel mondo dei media.

foto Ticinolive

Vi sono state reazioni, come quella del filosofo Norbert Bolz che ha pubblicato più libri sul tema agli inizi del 2000, ma con un’eco limitata. Dal politically correct alla censura il passo è più breve di quanto si pensi e siamo arrivati a situazioni nelle quali la gravità è superata solo dall’imbecillità.

Sapendo di poter essere sospetto perché dinosauro e per il mio profilo, alcuni esempi di censura originati da cecità fanatica li desumo dal libro «Génération offensée» (Grasset, 2020) di Caroline Fourest, già collaboratrice di «Charlie Hebdo», insegnante a Science Po, alla testa di movimenti femministi e presidente del «Centre gay et lesbien» di Parigi. Si batte contro una censura un tempo originata dalla destra conservatrice e moralista, oggi per contro da una certa sinistra moralista e identitaria, insorge contro «la polizia del pensiero».

Siamo arrivati al limite di chi non vuole che capigliature africane (trecce eccetera) vengano portate dai bianchi, di quegli studenti canadesi che hanno richiesto l’abolizione del corso di yoga per non usurpare la cultura degli indiani. Un gruppo di studenti parigini di Sciences Po vuole l’abolizione di altri corsi per dare spazio alla promozione delle bellezze marginalizzate e discriminate alla stessa Sciences Po «à travers le prisme du cheveu texturé». Rivolta perché una mensa universitaria ha servito un piatto vietnamita, il «bánkmi» che una studentessa vietnamita ha trovato tradisse la ricetta originale.

L’autrice deplora che da un fondato antirazzismo che perora l’uguaglianza di trattamento si è passati a quello che pretende un trattamento preferenziale in nome dell’identità. È nota la paura di professori ad esprimere opinioni che se si urtano con quelle di qualche minoranza possono portare a perdere il posto.
Aneddoti che sostanziano le riflessioni di spessore dell’autrice, che lamenta anche l’intolleranza che condiziona la vita degli artisti censurati e impediti sui ruoli che sono chiamati a coprire. Conclude sottolineando come la generazione Y o millennials (i giovani di oggi) non ha conosciuto né la schiavitù, né la colonizzazione, né la deportazione, né lo stalinismo, e attraverso l’anacronismo da Internet si atteggia come dovesse difendersi dallo sterminio. Gli esempi citati e le tesi del libro ci danno uno spaccato esemplare di una società che si alimenta dell’indignazione (talvolta ridicola) originata dal fanatismo (spesso alimentato dall’ignoranza).

Ma lo stupidario è alimentato anche dalla cronaca quotidiana. Una petizione di migliaia di persone ha chiesto la rimozione di una tela di Balthus perché raffigurava un’adolescente con una gonna che permetteva di vedere le mutandine. Per aver parlato dei vantaggi alla società originati dalle virtù mascoline il docente è stato licenziato da Eton. Abbiamo letto che negli USA in alcune chiese cattoliche per non urtare le femministe si termina la Messa con «A-woman» non con Amen.

Nancy Pelosi, Presidente della Camera dei rappresentanti degli USA, ha abolito i termini di «padre, madre, figlio, figlia, fratello, sorella» sostituiti con «genitori, figlio, sibling». La sportiva svizzera Mirjam Jäger ha criticato il fatto che una manifestazione «Black Lives Matter» abbia avuto luogo nonostante il coronavirus. Ha perso dei clienti, come la Posta e Ikea.

Sì, perché una conseguenza è l’intimidazione. Il «20 Minuti» del 27 novembre ha riferito di una famiglia di immigrati eritrei che ha gravato durante cinque anni per un totale di 1.370.000 franchi le finanze del Comune di residenza. La notizia, nonostante corrisponda al vero, a seguito di interventi viene cancellata. Non solo, il giornale si è impegnato a costituire un consiglio di responsabilità sociale (censura!) con la collaborazione di ONG.

Purtroppo ancora una volta, distratti dai nostri impegni, non ci rendiamo conto della gravità e non vogliamo trovare il tempo per reagire. Sensibilità giustificate e cause necessarie per il progresso nella convivenza talvolta degenerano. Se ciò resta senza contraddizioni non si fa che aiutare la censura. Ma seguendo le notizie dei media si ha spesso l’impressione di un’ingiustificata cautela per non offendere.

Chi? Peggio della censura non vi è che l’autocensura.

Tito Tettamanti

Pubblicato nel CdT e riproposto con il consenso dell’Autore e della testata