Sono passati poco più di sette mesi da quando la piattaforma petrolifera della British petroleum, la Deepwater Horizon, era esplosa al largo del Golfo del Messico facendo 11 morti e causando un disastro ambientale di proporzioni e conseguenze devastanti.
Centinaia di miglia marine invase dal greggio che per mesi ha continuato ad uscire dal pozzo danneggiato dall’esplosione. Il pozzo Macondo lo avevano chiamato. Adesso non sbrodola più, il suo buco malefico è stato chiuso grazie a un enorme tappo in cemento armato che dovrebbe tenere per i prossimi mille anni.

La marea nera iniziata lo scorso 21 aprile ha ucciso milioni di animali, uccelli, pesci e altre piccole creature marine, le popolazioni di coralli, deperite nel vischiume di pozzanghere nere e maleodoranti. Altri milioni di pesci poi stanno ancora boccheggiando per sopravvivere in acque profonde cosparse da melliflue placche di petrolio spesse decine di metri e lunghe chilometri.
Milioni sono i dollari spesi per cercare di ripulire la superficie delle acque del Golfo del Messico. La superficie, soltanto quella, in quanto nei fondali la partita è persa, chi avrebbe mai il coraggio di pensare ad un qualsiasi intervento?
Milioni sono le parole sperperate ai quattro venti dai manager della BP, nei talk show televisivi, durante i telegiornali e dai membri del governo americano, Barack Obama compreso. A dar man forte a questi artisti della comunicazione sono scesi in campo anche gli autorevoli newspapers statunitensi, che invece di fare un po’ di sana critica si limitavano a riportare titoloni come quello del New York Times del 4 agosto: “La BP dichiara che tre quarti del greggio riversato nel Golfo del Messico è stato eliminato. L’Operazione Static Kill (la chiusura del pozzo esploso) è avvenuta con successo.”
Ci si attendevano severe parole e azioni di protesta da parte di associazioni ambientaliste come Greenpeace e il WWF, ma non si è sentito nulla. Un comportamento ben strano.

Oggi, dopo sette mesi dal disastro e milioni di barili di greggio dispersi in mare, sulla vicenda è pressoché calato il silenzio. Il disastro del Golfo del Messico è già storia, un evento che è stato messo nello scatolone dove finiscono tutti i fatti di cronaca.
Il disastro ambientale è un’evidenza, la sua devastazione persisterà per decenni, ma quale monito ha lasciato? Quali insegnamenti ha dato? A cosa è servito tutto questo? A nulla, se non a fare audience durante il TG.

Nel segno del politically correct l’industria petrolifera ha tirato i remi in barca per qualche settimana ma poi è ripartita con progetti di nuove trivellazioni sino a oltre 5000 metri sotto la superficie (il pozzo esploso nel Golfo del Messico si trovava in acque considerate già a rischio, vicino ai 1500 metri di profondità).
Anche la compagnia petrolifera inglese BP, responsabile di tutto quel casino, ha rialzato la testa dopo la crisi che l’ha messa a tappeto per lunghe settimane. Per lei la fattura è stata salata, con il sequestro di 20 miliardi di dollari da parte delle autorità americane per assicurare i danni e i pagamenti legati al disastro ambientale.
E’ del 25 ottobre scorso il commento di Bob Dudley, che dal 1. ottobre ha sostituito Tony Hayward quale amministratore delegato della società inglese. Dudley ha dichiarato che “Il disastro nel Golfo del Messico non ci ha scoraggiato. La BP non lascerà gli Stati Uniti. C’è troppo in gioco, per entrambe le parti. Gli Stati Uniti hanno bisogno di energia e la nostra società è il maggiore produttore di petrolio e gas del paese.”