Giunge dagli Stati Uniti, la notizia della morte per suicidio del più giovane dei figli maschi dell’ex Shah di Persia, Mohammad Redha Pahlavi. Il 44enne Ali Redha Pahlavi si è tolto la vita nella sua casa di Boston.
Da anni l’uomo era in preda ad un profondo malessere, acuito dalla morte del padre (esiliato dall’Iran nel 1979, dopo la rivoluzione islamica dell’Ayatollah Khomeini) e della sorella, anche lei morta suicida a Parigi, quando aveva solo 21 anni.

Il suicidio, un atto ragionato oppure un atto istintivo, impulsivo? Un atto che interrompe la vita quando il cuore si fa troppo pesante e l’unico pensiero diventa quello di andarsene da una vita che è diventata dolore e buia sofferenza e dove niente più funziona.
In un suo libro del 2006, la scrittrice francese Anne Givaudan definisce il suicidio “un patto violato”. Un patto con chi? Con noi stessi e con gli altri, con le persone con cui interagiamo nel nostro quotidiano. Un patto violato che rende il suicidio un atto inutile, una fuga che non porta ad alcuna soluzione. Un atto che porta smarrimento all’anima che lo ha compiuto e nei cuori di chi rimane.
Nascendo, l’uomo si collega a una moltitudine di altre creature, legami che con il suicidio vengono vissuti in maniera spesso tragica da buona parte di queste persone. Sensi di colpa, domande senza risposta, un senso di fallimento, sono alcune delle conseguenze che un suicidio può causare nell’animo di chi si trova di fronte a un fatto compiuto e molto spesso non capito, nemmeno accettato.
Quante volte una moglie, un fidanzato, un padre, un figlio, un amico affrontano il dolore per il suicidio di un loro caro dicendo “Sono arrabbiato/a con te. Questa non me lo dovevi fare.” Questa reazione non è egoismo, non è il volersi sempre mettere al centro di una situazione. Sono parole comprensibili, una reminescenza da qualche parte nel cuore di quel patto a cui il suicida è venuto meno.
Un patto violato – che si creda o meno a queste cose – del quale il suicida si pente non appena si vede galleggiare nell’aria sopra il suo corpo senza vita, non appena vede la disperazione che ha causato nelle persone che gli stavano accanto.

La religione islamica condanna il suicidio, lo considera un “patto violato” dall’uomo nei confronti di Dio, non nei confronti degli uomini. Malgrado questo, l’Islam assicura il perdono al suicida, in quanto Dio riconosce la fallibilità dell’uomo e ad esso concede sempre la sua misericordia.
Per la religione cristiana il suicidio è un peccato assai grave, in quanto la vita di ogni persona appartiene a Dio. Togliersi la vita significa derubare, per distruggere, qualcosa che è di Dio. Nel passato chi si suicidava non veniva sepolto nei cimiteri ma al di fuori di essi, senza benedizione. In questo modo di intendeva privare l’anima del perdono di Dio e della pace del Paradiso.