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Gli ultimi soldati hanno lasciato l’Iraq. Rimangono sul terreno pochi ufficiali, incaricati di addestrare le truppe irachene.
A cosa sono serviti nove anni di guerra e di morti. Ne è valsa la pena? La risposta alla prima domanda è “A niente”. La risposta alla seconda domanda è “No”.


La decisione di invadere l’Iraq è stata un errore strategico e la politica americana durante i primi mesi dell’invasione ha trasformato l’errore in catastrofe.
Un esempio fra tutti: l’ordine di dissolvere l’esercito iracheno, che all’improvviso aveva messo in strada migliaia di giovani soldati, disoccupati, arrabbiati e armati. Uniti a una popolazione disorientata e vieppiù insofferente verso gli invasori americani, questi soldati hanno dato il via a una sanguinosa rivolta.

Se nel marzo 2003 il Congresso americano fosse stato sicuro che Saddam Hussein non aveva armi di distruzione di massa avrebbe dato il suo consenso all’invasione? Forse.
L’amministrazione Bush aveva provocato la guerra su una base di informazioni approssimative o per uno scopo ben preciso? Non si sa con certezza, le opinioni divergono.
Questo è la questione Iraq : risposte incerte, verità e bugie, un pasticcio sin dal suo inizio. Un pasticcio che ha fatto morire migliaia di iracheni, migliaia di soldati americani, che ha mandato alla forca l’intero apparato governativo di Saddam e che ha bruciato miliardi di dollari.

L’Iraq, una guerra inutile. Se nello stesso periodo gli stessi uomini e gli stessi mezzi fossero stati dispiegati in Afghanistan, forse oggi al Qaeda sarebbe un lontano ricordo e la società civile afghana vivrebbe in condizioni migliori.
La decisione di invadere l’Iraq era stata presentata da Colin Powell al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite il 5 febbraio 2003 e il 17 marzo le truppe americane arrivavano a Baghdad.
In un articolo apparso in quei giorni sul New York Times, il giornalista George Packer commentava che il presidente Bush aveva ordinato l’invasione senza sapere che l’Iraq si compone di sunniti, sciiti e curdi e che la soppressione di Saddam Hussein rischiava di provocare gravi tensioni fra queste comunità, con il pericolo di una guerra civile.

Nell’estate del 2007, malgrado la situazione fosse sempre pericolosa e critica, lo scenario iracheno iniziava a calmarsi. Le perdite di vite umane diminuivano, le milizie sciite erano meno presenti. Molti miliziani sunniti avevano iniziato a collaborare con gli americani, mentre l’esercito iracheno, in formazione, acquisiva effettivi e competenza.
Nell’Iraq liberato oggi esiste un governo funzionale, che lascia pensare che i numerosi problemi del paese possono essere gestiti e risolti.
Resta la questione delle grandi differenze tra le fazioni che coesistono al centro dell’apparato organizzativo. Esse riflettono questioni centrali: la realtà del potere, l’identità e la distribuzione della ricchezza data dal petrolio.
Se queste non saranno risolte sul piano politico, gli elementi più radicali – numerosi – potrebbero riprendere le armi. E qui sorge una terza domanda: gli Stati Uniti hanno vinto la guerra in Iraq? La risposta è sicuramente “No”.

(Ticinolive/Slate.fr)