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Ho camminato l’altro giorno den­tro un pomeriggio e un primo imbru­nire mite e rosato in città: il brusio urbano, le chiac­chiere, il profumo di pasticceria, il piccolo strepito di voci vicine e clac­son lontani, i cordiali saluti locali, tut­to mi riconciliava con il piacere d’ec­cezione di un pigro crepuscolo in liber­tà, senza fare niente.

Parlo di ozio quie­to, non di tempo libero agitato e stres­sato. Una vera saggezza sarebbe quel­la di aumentare queste incursioni nel­le libere ore chiare di certi giorni inve­ce di consegnarsi alla droga della cor­sa continua per il lavoro ma anche per festival, dibattiti, aperitivi, vernissage, cene in piedi, amplessi sociali («un ab­braccio!», «un bacio, anzi tre», «ciao ciao ciao»!). Più facile a dirsi che a far­si ma ci proverò.
Ricordo l’esortazione di un professore universitario bravo e impegnato il quale nondimeno ci am­moniva (e forse si ammoniva): «Lavo­rate un po’ meno e state un po’ di più con i vostri amici!». Sante parole. In­vece spesso è tutto uno scappare via con frasi truffaldine tipo «dobbiamo vederci», «sentiamoci», «uno di questi giorni ti chiamo, dai».
E quel dai è qua­si sempre un mai. Non c’è mai tempo, ci compiacciamo di agende stracari­che, per qualcuno «questo è un perio­do stressante» e si dimentica che quel periodo dura da vent’anni e continue­rà.

Ricordo la confessione di un profes­sionista ticinese il quale raccontava di aver ricevuto un paio d’anni fa l’im­prevista visita di un piccolo infarto: gradito, dopotutto, affermò, perché fi­nalmente lo distolse un poco dall’assil­lo della professione (sino ad allora lui si sentiva a essa indispensabile ed es­sa pareva indispensabile a lui) e lo la­sciò per un dolce e fervido periodo al­la famiglia, al piacere di leggere e scri­vere.
Toccando ferro e dunque augu­randomi che nessun visitatore infido venga a obbligarmi a un poco d’ozio, mi riprometto di ritagliare più ore, di tanto in tanto, per l’odore mattutino del fornaio e i libri che mi piacciono e il caffè in piazza e poi per camminare in alto, dove l’orizzonte di montagna si dischiude in modo nuovo a ogni so­sta e sembra dilatare la vista e lo spi­rito.
E per dedicare parole e ascolto ad amici che altrimenti sfuggirebbero nel­la deriva del tempo impegnato. Certo, il lavoro è fondamentale per la vita di una persona (e dico il lavoro del ma­nager e della casalinga, dell’operaio e del pensionato che si dà da fare nella vigna).
Ma uno ama e vive il proprio lavoro (come qualsiasi altra circostan­za impportante), e dunque lo fa bene, proprio se lo sa armonizzare con il tem­po personale da dedicare a sé stesso nel profondo, anche alla sua inquietudine bella e positiva.
C’è ormai persino il vezzo di lavorare come muli senza al­zare la testa e poi di compiacersene o di lamentarsene, di dire ogni giorno «sono stanco morto» senza morire mai.
Diffido dell’attivista sempre attaccato al suo cellulare, interconnesso con il mondo anche al gabinetto, nervoso e stressato, decisionista e perentorio, or­goglioso di annunciare le sue «giorna­te di dodici ore di lavoro quando non sono quattordici».
Bravo sciocco, vie­ne da dirgli: chi te le ridarà le ore che hai rubato alla oziosa camminata in cui ti imbatti nell’odore del vento, allo sguardo di tuo figlio che torna da scuo­la, persino al lampo d’occhi e alla fal­cata della ragazza in bicicletta che svol­ta l’angolo, alla sosta salutare e appa­rentemente oziosa durante la quale, fi­nalmente, pensi a chi sei ? Fermati un attimo. Vediamoci, dai.

Michele Fazioli
(pubblicato il 27.2.2012 sul Corriere del Ticino – per gentile concessione)