Nel GdP del 19 giugno il granconsigliere di Area liberale Sergio Morisoli ha illustrato una tesi che aveva già sostenuto in precedenti occasioni: in tutte le leggi settoriali dovrebbe essere introdotto un limite temporale di scadenza (Morisoli propone 12 anni), passati i quali i consessi politici dovrebbero verificare se la legge in questione abbia dimostrato la sua bontà e la sua efficacia, se tutte le aspettative e gli obiettivi postulati al momento in cui è stata varata abbiano trovato conferma.

Dice infatti Morisoli: “Diverse leggi rimangono per decenni immutate e senza verifica quanto al raggiungimento degli scopi annunciati: si ha così un’offerta squilibrata e costosa o perlomeno non adattata ai cambiamenti che intervengono nella società. Il principio della “data di scadenza” sulle decisioni importanti adottate dal Governo e dal Parlamento, rafforzerebbe il riesame critico dell’azione dello Stato nell’interesse diretto dei beneficiari dell’offerta e indiretto dei contribuenti che la finanziano. L’introduzione di una scadenza fissa applicata alle leggi sarebbe inoltre un forte incentivo a raggiungere entro il termine stabilito gli obiettivi concreti e misurabili espressi nelle leggi. Questo indurrebbe anche Governo, Amministrazione e Parlamento ad elaborare e votare leggi semplici e chiare quanto ai risultati da raggiungere.” E più oltre Morisoli aggiunge: “Oggi le leggi, se vengono corrette, lo sono in genere troppo tardi e spesso al rialzo: ciò che non funziona o funziona male (ma costa) viene difficilmente evidenziato; spesso si segue la via dell’attribuzione di risorse aggiuntive, nella convinzione che la soluzione dei problemi riscontrati sia unicamente una questione di quantità di mezzi disponibili. Occorre invece favorire la verifica effettiva di efficacia condotta su norme che si dimostrano inefficaci rispetto allo scopo originario.”

È una proposta di principio giusta, perché le cose evolvono ed è sbagliato considerare in ogni caso come intoccabile ed acquisito per sempre ciò che una volta è stato deciso. Nella realtà sorgono poi nuove domande, a cui magari non si hanno i mezzi per rispondere perché quest’ultimi sono monopolizzati da erogazioni codificate dalle leggi e che magari non sono più a ragion veduta giustificate. Tuttavia io consiglierei Morisoli di lasciar perdere questa proposta. Perché? Per un semplice motivo: la verifica delle leggi ogni 12 anni, che Morisoli vorrebbe introdurre, verrebbe fatta dagli stessi politici che le leggi le hanno varate (o comunque da politici loro consimili, che possono essere migliori ma magari anche peggiori di coloro che fabbricarono le leggi qualche tempo addietro). Che garanzia c’è che la verifica auspicata da Morisoli venga fatta con criteri rigorosi e oggettivi, come sarebbe necessario? E che essa non porti a ciò che egli stesso descrive, cioè a una pura e semplice “attribuzione di risorse aggiuntive nella convinzione che la soluzione dei problemi riscontrati sia unicamente una questione di quantità di mezzi disponibili”? Dopotutto i politici tendono sotto ogni cielo e in ogni epoca, chi più chi meno, a indulgere alla demagogia e a solleticare il facile consenso con promesse di distribuzione di favori, di sussidi e di prebende. L’unico risultato della concretizzazione di questa misura rischierebbe di essere un poderoso aumento del lavoro del Gran Consiglio e della sua commissione legislativa (che non sempre è composta da teste pensanti particolarmente ispirate e provviste di buon senso….).

Personalmente suggerirei a Morisoli di percorrere semmai un’altra strada, che la nostra democrazia diretta provvidamente mette a disposizione di cittadini, gruppi e partiti: quella di lanciare delle puntuali iniziative popolari mirate a correggere (poniamo) due o tre leggi che, alla luce di una preliminare verifica, siano apparse particolarmente bisognose di correzione. A parte il fatto che questa via avrebbe il vantaggio di essere selettiva e di far discutere sulla modifica solo di quelle leggi che abbiano dato luogo a palesi e constatate incongruenze, essa costringerebbe il gruppo di iniziativisti a un utile sforzo preliminare di verifica di una determinata legge e della sua applicazione, ma pure a un sforzo di informazione e di ricerca di appoggi e consensi sulla loro proposta di revisione.

Un comitato di iniziativa (come un comitato di referendum contro una decisione presa dal Gran Consiglio) può essere formato da un partito o può essere composto da persone attive trasversalmente in diversi partiti o comunque aventi posizioni politiche anche diverse ma che sono unite nel sostenere la proposta in questione. Nel caso di un partito, un’iniziativa può essere anche uno strumento promozionale, nel senso che, nel mentre sostiene un determinato postulato, indirettamente fa pubblicità anche al partito che la promuove. Questo a maggior ragione per un partito piccolo o di recente affacciatosi alla vita pubblica, come è il caso di Area liberale. Ma va anche detto che, alcune di queste iniziative (rivolte, per dirla in modo semplificato, a far funzionare meglio lo Stato, a contenerne il costo per i cittadini e a frenare l’estendersi dell’Amministrazione laddove essa non è necessaria) potrebbero sicuramente essere sostenute da un comitato trasversale ai partiti.

Paolo Camillo Minotti
Pubblicato nelle “Cronache dell’ALS”, Alleanza Liberi e Svizzeri, del giugno 2012