Giornata d’azione per la scuola, Mezzovico, 29 novembre 2012

Una premessa. Si preannunciano tempi difficili per le finanze cantonali e comunali, da qui la corsa alla ricerca del dove operare tagli in tutti i settori (dipartimenti e dicasteri) o dove trovare nuove entrate (fiscalità). Ricerca che, muovendo da diverse visioni del ruolo dello Stato e dei suoi compiti, spesso fa scaturire iniziali contrasti, che immancabilmente sfociano però in non scelte, cioè in misure lineari o che non valutano né le priorità né i compiti. Ecco allora che mi sembra molto opportuna la scelta dei docenti di questa sede: cogliere questa occasione per riflettere su quali dovrebbero essere i compiti della scuola oggi, sul ruolo e sulle difficoltà dei docenti nell’attuale contesto sociale. Approccio che dovrebbe adottare, pur nello scontro, chi vuole individuare criteri per scegliere e agire.

Per la scuola teniamo presente un invito: “ Per amore, non di Dio, ma di voi stessi e per onore del Ticino, e della sua civilizzazione, non permettete che abbia predominio la smania di coloro che per far economia sarebbero contenti di tagliar ad una ad una le poche e deboli radici dell’albero della vita, dico di quella vita che non ha bisogno soltanto di cibo materiale.” Un invito che ci arriva da lontano, perché così scriveva da Berna, il 18 gennaio 1851, Stefano Franscini al granconsigliere Carlo Battaglini.

Per cogliere le peculiarità della scuola oggi penso sia opportuno ripercorrerne la sua storia e, attraverso la messa in evidenza delle trasformazioni più significative del contesto sociale, ribadire la sua funzione e, di conseguenza, sottolineare quale dovrebbe essere il ruolo del docente…e non quello che dovrebbe subire. Andiamo quindi, per stimolare la riflessione questa sera, a ripercorrere un sintetica storia della scuola dalla scuola nel Ticino che nasce e si modernizza alla scuola di ieri su su fino alla scuola di oggi . Cos’è cambiato ?

a) Questo nostro Cantone nasce anche grazie all’impegno politico a favore dell’istruzione pubblica intesa quale motore di crescita e di indipendenza in un sistema democratico. La democrazia è infatti un’apertura di credito all’homo sapiens (Giovanni Sartori , Democrazia Cosa è). L’istruzione pubblica, fortemente voluta dai padri fondatori del nostro Cantone, che per questo si ispiravano all’illuminismo lombardo, era ostacolata invece da chi voleva conservare privilegi, da chi si opponeva al rinnovamento e propugnava di mantenere la popolazione nell’ignoranza, in particolare le donne ( Il Franscini apre una prima scuola femminile di mutuo insegnamento a Lugano).

b) Consolidato e riconosciuto il ruolo fondamentale della scuola per la crescita dell’individuo e del Paese, all’inizio del 900 e fino agli anni 60, in una comunità educante che condivideva lo stesso sistema valori, la scuola primaria assunse un ruolo chiaro: era il luogo dove si imparava a leggere, scrivere e fare di conto. E chiaro, da tutti riconosciuto e rispettato, era il ruolo del maestro*): era colui che sapeva e che trasmetteva il suo sapere agli allievi. Dal non sapere non nasce sapere. Prevaleva quindi l’insegnamento delle varie discipline. L’educazione era compito di tutti, primariamente della famiglia e della società; scuola, famiglia e società civile si trovano così in sintonia.

Vigeva, ed era da tutti accettata, un’asimmetria dell’educazione: apprendere è una fase di sottomissione che impone l’accettazione dell’ordine e dell’obbedienza, ma che come scopo ridurre le distanze fino ad accettare di farsi superare (nel rapporto padrone-schiavo, autoritarismo, l’obiettivo è mantenere la distanza; nel rapporto educatore-allievo è invece quello di progressivamente annullarlo). Significativa la denominazione della scuola che formava i maestri: la Normale.

Quando da allievo ero seduto tra banchi di scuola – e parlo degli anni 50 – il docente era di conseguenza una figura pienamente riconosciuta nel contesto sociale. Era un’autorità, anche se non sempre autorevole (e su questo ritorneremo) . Nessuno pensava di metterne in discussione il suo agire. Se si arrivava a casa dicendo che il maestro ci aveva punito, anche per una piccola trasgressione, si rischiava di ricevere, se tutto andava bene, un secondo rimprovero dai genitori.

Nel contesto sociale, il docente, come tutte le figure sociali riconosciute necessarie e autorevoli, godeva di prestigio ed era considerato un punto di riferimento per la comunità (ul sciur maestro; la di ul maestro)), non necessariamente godeva per questo di una situazione economica privilegiata in un Cantone ancora povero.

Quando poi entrai nel ruolo di insegnante, nel ’64, nel mio comune- villaggio, ho vissuto ancora questa condizione. Non avevo dubbi: il mio compito ruotava attorno al verbo insegnare (lasciare un segno), insegnare conoscenze , competenze e comportamenti, continuando nell’educazione l’opera iniziata e continuata nella famiglia. A nessuno veniva in mente di interferire nelle scelte metodologiche o nei contenuti di programmi. Nelle classi, molto omogenee perché al massimo c’era qualche figlio di immigrato italiano, insegnavo una lingua straniera : l’italiano. La lingua comune era infatti il dialetto.

*) maestro da “magis” = più e “tero” = opposizione tra due, quindi “il più forte, il
Maggiore” in contrapposizione ad un’altra persona o a un gruppo

c) Poi è arrivato il ’68, con una contestazione generalizzata ad ogni forma di autorità. Le autorità, docenti compresi, iniziarono a sviluppare una crisi d’identità sulla spinta di una società che si sentiva sempre più legittimata a metterle in discussione. Si contestò quell’asimmetria alla quale accennavamo. Nella scuola, il rapporto docente-allievo mutò radicalmente. I dogmi pedagogici diventarono: l’allievo al centro, costruire personalmente il sapere, l’importante è esprimersi,… In sintesi prese piede, a scuola e in famiglia, una pedagogia del permissivismo e dello spontaneismo in cui l’allievo non doveva essere costretto a fare, ma imparava da solo. “Una terapia di facilitazioni” come sostiene George Steiner, generatrice secondo le sue tesi di quella che definisce La barbarie dell’ignoranza. La conseguenza: genitori e docenti sempre più insicuri sul cosa fare o sotto continuo giudizio. Il che sarebbe stato giusto nei confronti di chi, approfittando del ruolo che gli assegnava la società, abusando dello stesso, confondeva autorevolezza con autoritarismo, cioè abusava dell’autorità.

d) Successivamente, negli anni del boom economico, attorno agli anni 70, prese avvio un altro fenomeno sociale che ebbe, a mio avviso, conseguenze disastrose per la scuola: un progressivo processo di delega di compiti della famiglia o della società all’istituzione scolastica.

Gli impegni e le responsabilità della scuola si sono così progressivamente accumulati, togliendo al docente spazi e tempi per svolgere i suoi compiti specifici e chiedendogli di assumere sempre più ruoli, per i quali non è stato preparato e non dovrebbe essere preparato ( assistente sociale, psicologo, surrogato del genitore, sessuologo,…). A poco a poco, nel corso degli ultimi decenni, abbiamo visto attribuire alla scuola sempre nuove funzioni, non di sua competenza: dall’insegnare a guardare la televisione, a lavarsi i denti, ad attraversare la strada; dall’educazione alimentare all’educazione sessuale …

Il tutto avveniva senza la consapevolezza che ogni delega che diamo allo Stato, in questo caso alla scuola pubblica, è una perdita di libertà e, per la parte che riceve una delega è una nuova, supplementare responsabilità. La conferma di tutto ciò è che, quando oggi si discute di qualità della scuola, si discute quasi esclusivamente sulla quantità di servizi offerti: estensione di mense, corsi dopo scuola, attività estive,… o su che cosa deve fare la scuola per preparare gli individui ad affrontare ogni nuovo problema emergente nella società.

Ne consegue che oggi il docente si trova confrontato con una complessità di problemi, con un onere di lavoro pesante e per di più senza il giusto riconoscimento sociale per questo impegno supplementare che gli vien e assegnato e che deve accettare. Compiti sempre più gravosi quindi ai quali si aggiungono ancora quelli derivanti dal fatto che la scuola non può isolarsi dai problemi di un contesto sociale che si sta frantumando e trasformando.

Prendiamo ad esempio la globalizzazione, che per certi versi ha giustamente favorito i flussi migratori, ma ha anche reso sempre più composite le classi per culture e sistemi di valori di riferimento delle varie comunità ( a Lugano, ad es., si registra la presenza di allievi che si rifanno a ben 33 lingue madri diverse).

La famiglia stessa è cambiata. Anche se la parola ci richiama ancora una concetto unitario e univoco, la realtà è ben diversa e ci confronta con entità frammentarie, eterogenee , complesse e problematiche, per le quali dovremmo forse trovare un altro termine. Così anche i rapporti con i genitori sono mutati con una conseguente e frequente confusione di ruoli. Si va dal genitore che s’intromette in ambiti didattici o di programma, pretendendo di modificarli secondo le soggettive visioni della scuola suo ( si generalizza il “siamo tutti allenatori in ogni campo”), a chi all’estremo delega tutto, comprese le proprie responsabilità di genitore.

Quel sistema di valori condiviso, che ricordavo caratterizzava la scuola di ieri, si è sgretolato e relativizzato. I figli del ’68 sono diventati genitori o parenti. Il no fermo e pacato, segno di autorevolezza e non di autoritarismo è piuttosto assente. E le conseguenze sono preoccupanti. Ricordo che Jeanne Hersch, psicologa ginevrina, già nel ’68, rivolgendosi con coraggio ai predicatori della pédagogie institutionelle che contestavano l’école caserme , diceva: “La libertà ha bisogno di regole”. Per essere liberi bisogna cioè imparare le regole e imparare a rispettarle.

Questo vale per comportamenti e apprendimenti. Pensiamo infatti, ad esempio, all’insegnamento di pratiche complesse e fondamentali come la lettura e la scrittura, che dobbiamo ritornare ad insegnare con nuove competenze rivalutando il ruolo della fatica. Altrimenti i segnali preoccupanti per il futuro non potranno che dilatarsi. Leggevo domenica sul Corriere della Sera che da una recente ricerca, nella fascia dai 15 ai 64 anni, un italiano su due non sa capire quello che legge e le nuove tecnologie non faranno che accrescere questo dato negativo (I nuovi analfabeti/ Spot, politica, articoli di giornali/ Un italiano su due faticano a capire). Ma chi potrà e dovrà fare qualcosa per porre rimedi a un problema come questo? Qui è giusto che sia la scuola, ma a certe condizioni. La prima, che si tolgano alla stessa compiti che non le sono propri e si dia spazio e tempo necessari. La seconda, che si dia ai docenti una formazione di base e continua adeguate. E qui voglio sottolineare l’impegno e la motivazione dei docenti di questa sede che da anni ormai seguono facoltativamente, senza obblighi superiori, corsi di formazione in questa prospettiva.

In generale, da una pedagogia delle semplificazioni (generatrice della Barbarie dell’ignoranza) bisognerà passare a una pedagogia che insiste più sulla capacità di porre degli ostacoli giusti al momento giusto. Far fatica per apprendere. Imparare ad affrontare delle difficoltà, a sopportare una fatica, per poi sperimentare la gioia di averle superate. Una delle massime di Spinoza dice: “ la cosa eccellente deve essere molto difficile”. Ma un discorso analogo andrebbe fatto, con i genitori, in ambito educativo attorno ai no che fanno crescere e all’importanza della fatica finalizzata. Senza punti di riferimento, senza regole i giovani crescono infatti nel vuoto angosciante di una libertà che imprigiona.

Ritornando, per concludere, all’occasione che ha promosso questo incontro penso che la via giusta da intraprendere per attuare qualsiasi misura di risparmio sia quella di riflettere sullo specifico della scuola oggi. È la premessa per tagliare quei compiti che non le sono propri e per offrire ai docenti le condizioni per poter svolgere bene quelli che sono della scuola.

Penso che la scuola abbia bisogno di ridefinire le sue essenzialità, anche per poter dire, a volte, no e non adattarsi ad essere luogo di tutte le funzioni.

Occorre avere una visione per impostare una nuova, necessaria politica scolastica che tagli dove è necessario, ma che investa ancora di più nei campi che le sono propri. Una politica scolastica che non affronti solo problemi quantitativi, se riduciamo solo gli allievi per classe ( che tra l’altro nel 91% dei casi sono già sotto la soglia auspicata) cambiamo poco.

Solo se investiremo nel docente affinché diventi autorevole per competenze nei ruoli che gli sono propri, solo se lo metteremo in condizione di lavorare, la scuola potrà ritornare a svolgere quella funzione che le attribuivano i padri fondatori del nostro Paese. E oggi il nostro Paese e tutto l’Occidente tutto ne hanno fortemente bisogno se non si vuole adagiarsi passivamente al loro tramonto.

Roberto Ritter, ispettore, direttore dell’Istituto Sant’Anna

ritter p

Roberto Ritter riceve un omaggio da ReGiorgio e dal Municipio in corpore