Ogni anno l’Unione europea produce migliaia di pagine di rapporti, normative e discorsi, scritti in un linguaggio oscuro e pomposo che dimostra tutto il suo dogmatismo.

Ogni settimana si accumulano così testi legislativi, proposte di legge, libri bianchi o di altri colori, rapporti, decisioni, risoluzioni, avvisi, discorsi e così via.
La singolarità della lingua con la quale sono redatti o formulati costituisce una delle loro intrinseche proprietà.

Del linguaggio utilizzato dall’Unione europea colpisce prima di ogni altra cosa l’uso massiccio di frasi fatte, riciclate di continuo con qualche leggera variazione.
È come se questa lingua si fosse pietrificata in blocchi compatti con i quali grazie al copia-e-incolla è possibile costruire rapidamente la struttura portante di qualsiasi espressione scritta o orale.

“Lo sviluppo sostenibile fondato su un’economia sociale di mercato altamente competitiva, che tende alla piena occupazione e al progresso sociale”; “la lotta all’emarginazione sociale e alle discriminazioni”; “la crescita intelligente, duratura e inclusiva”; “il modello sociale europeo”: questi sono soltanto alcuni dei “blocchi” più apprezzati ai quali si fa ricorso di continuo.

Quando poi dovessero venire meno perfino le espressioni più stereotipate, il linguaggio utilizzato dall’Unione resta caratterizzato da una pesantezza estrema e dalla sovrabbondanza di cliché vuoti e privi di senso.

Per esempio, il cosiddetto “Atto per il mercato unico 2011” è un documento della Commissione europea che inizia con questa frase fulminante: “Al cuore del progetto europeo sin dalla sua nascita, il mercato comune, diventato mercato interno, da 50 anni va tessendo legami di solidarietà tra le donne e gli uomini d’Europa e allo stesso tempo apre nuovi spazi di crescita a oltre 21 milioni di aziende europee”.
Il Parlamento europeo l’ha avallato, insistendo in particolare sull’importanza di “mettere i cittadini al cuore del progetto del mercato unico”, e affermando che “il mercato unico nasconde grandi potenzialità in termini di occupazione, crescita e competitività e conviene di conseguenza adottare politiche strutturali energiche per sfruttare appieno questo potenziale”.

Le istituzioni europee e i loro rappresentanti amano follemente proprio questo tipo di espressioni ampollose, impregnate di trionfalismo.
Da numerosi testi e dichiarazioni sgorga un vero e proprio fervore trionfalistico: nel libro bianco sulla gioventù, dal sottotitolo un tantino orgoglioso “I giovani in prima linea”, si può leggere che “L’Unione si deve costruire con gli europei.
Le consultazioni organizzate al fine di prepararne l’evoluzione, e le riflessioni condotte sulla sua ‘governance’ devono anch’esse coinvolgere coloro che domani ne raccoglieranno il testimone […]”.

Parimenti, anche i discorsi dell’Ue sono molto spesso impregnati di dogmi, precetti, di un tono moralizzatore e paternalistico.
Come se i loro autori assolvessero al ruolo di professori davanti ai loro scolari, il ruolo di un’élite illuminata, che conosce ogni cosa meglio di tutti gli altri e diffonde il bene e la conoscenza tra persone del tutto ordinarie.

La ripetizione insistente, noiosa e continua degli stessi dogmi e delle stesse formule già trite è rivelatrice di pigrizia, di un intorpidimento intellettuale, di una mancanza di spirito critico, di un procedere faticoso e ininterrotto lungo sentieri già battuti.
Illustra fino a che punto alle élite dell’Unione manchi una capacità di autoriflessione che permetta loro di comprendere una volta per tutte che sono proprio le ambizioni smisurate ad aver fatto precipitare l’Ue nell’attuale crisi, e a trovare un sistema per uscire dall’impasse del programma di centralizzazione.

(Fonte : presseurop.eu)