Leggo nell’Unità del giorno di Ferragosto questo stupefacente articolo (titolo originale: L’ex Br Senzani «recita» Peci / Una lezione d’inciviltà, autore: Oreste Pivetta). A mio avviso esso merita ampiamente di essere proposto all’attenzione dei nostri amici lettori. È scritto con mano esperta, vorrei quasi dire magistrale (noi di destra scriviamo più alla buona, di “tenori” ne abbiamo tre-quattro e non duecento, bisogna accettare la dura realtà).
Un’obiezione mi sento di formulare, una soltanto. Quando Pivetta scrive: “stratega di improbabili rivoluzioni contro il PCI”. Le Brigate Rosse non furono mai contro il PCI, che per anni – astutamente e tenacemente – ne negò persino l’esistenza.
Vivono ancora tra noi molti individui che popolarono le cronache degli anni settanta e ottanta di morti, di orfani e di vedove, di stelle a cinque punte, di paure e di angosce, di messaggi deliranti. Scrivo «deliranti», come si è sempre usato, ma preferirei scrivere semplicemente «idioti»: nel delirio si può immaginare qualche nobiltà, qualche generosità.
Non tutti sono ancora tra noi. Pochi mesi fa ad esempio se ne è andato Prospero Gallinari, malato, stanco, mai pentito. Di alcuni, tra quanti restano, non si sa più nulla. Hanno scelto, molto spesso avendo scontato una pena (ridotta grazie ai benefici che la legge riconosce a tutti i detenuti, una legge di quello Stato che volevano abbattere) un lavoro e soprattutto il silenzio. Molti altri non si sono sottratti al piacere di raccontare, di testimoniare, parlando, scrivendo, dichiarando, esibendo il loro passato, elencando motivazioni, giustificazioni, ambizioni, dimostrando una dimestichezza con tutte le forme della comunicazione di massa di questa corrotta società contemporanea che è difficile immaginare in un rivoluzionario totale, in un terrorista votato alla clandestinità, all’oscurità, alla trama segreta, sequestratore oppure omicida con un cappuccio in testa per non farsi riconoscere.
Scrittori, conferenzieri, oratori, anche attori, come Giovanni Senzani, accusato e condannato per l’omicidio di Roberto Peci: cinquanta giorni di prigionia, chiusi da undici colpi di mitraglietta contro un operaio, la cui unica colpa era quella di essere il fratello di Patrizio, il brigatista che aveva fatto il nome dei compagni, un «infame» nella declinazione morale di quelli che invece non tradirono, quelli che pensavano e continuano a pensare che ammazzare un agente di custodia padre di due o tre figli alla fermata del tram, un avvocato, un giornalista, un giudice sotto casa, un professore in un corridoio di un’aula universitaria, un operaio comunista come Guido Rossa, fosse una prova di ardimento, in linea con la causa rivoluzionaria che li animava: contro lo Stato, contro i magistrati (che magari indagavano sulle stragi fasciste), contro i lavoratori che continuavano a pensare che si poteva cambiare la fabbrica, riformare persino un Paese, usando le armi della democrazia. Indifferenti di fronte alla morte e persino di fronte all’inutilità della morte.
Senzani, invecchiato, ultrasettantenne, fa l’attore nel film di Pippo Delbono, “Sangue”. Libero dal 2010, può fare quello che vuole: parlare, scrivere, anche comparire in un film (che racconta un dolore privato), anche “recitare” l’assassinio di Peci. Non c’è articolo del codice che glielo possa impedire e sarebbe un guaio se ce ne fosse uno. Però di mezzo c’è la coscienza, c’è pure di mezzo un senso morale e persino estetico che gli avrebbero dovuto sconsigliare l’esibizione: non può dar spettacolo dell’orrore che ha generato, non ha nulla da mostrare se non la sofferenza che ha provocato e che la sua presenza pubblica continua a provocare (esistono pure i diritti delle vittime e dei loro familiari), se non sa aggiungere una parola di condanna di quella tragedia, se non sa almeno elencare le rovine che quei giorni lasciarono in eredità agli italiani.
Leggo le parole di Senzani: «Nel funerale di Gallinari ho rivisto il funerale di Moro, quelli dei compagni caduti e delle nostre vittime: quel giorno ho capito che la nostra storia, la nostra piccola storia, era davvero finita». «La nostra piccola storia?», commozione compiacimento vittimismo. «Finita?», quanti anni per riconoscerlo, quanti anni ancora per capire il disastro. Finisce tutto. Finiscono anche i bei sogni, avrà concluso Senzani ai funerali di Gallinari. Un titolo del Corriere di ieri, a una intervista a Sabina Rossa, figlia di Guido, raccomandava: «Non si sale in cattedra senza confronto». Senza confronto, certo: Senzani parla davanti a una telecamera incontrastato.
Giudicherà lo spettatore, pensa il regista Delbono: dubito che un ventenne d’oggi sia in grado di farlo, che conosca la storia e quella storia in modo sufficiente per provare a capirla. Ma che cosa può insegnarci l’ex brigatista incorrotto Senzani perché possa salire in cattedra? Può insegnarci come si uccide un uomo? Forse dovrebbe provare a spiegarci il peso di quell’attacco alla democrazia, ai partiti, ad ogni spiraglio di riforma, il peso di quei delitti sul nostro disastroso e “lunghissimo” presente. Che pare, nella sua decadenza culturale e morale, coltivare una ostentata attenzione, con il suo carico conseguente di comprensione, per chi stava dalla parte sbagliata. Le vittime non fanno spettacolo e non fanno neppure simpatia. Tra le debolezze o le miserie della democrazia, evidentemente può far colpo il terrorismo narrato dai suoi protagonisti, che in una favola autoreferenziale di grandi ideali, di ingiustizie subite, di molte chiacchiere e di troppe atrocità stuzzica l’anticonformismo di maniera, che si dà per elegante e raffinato, intelligente e furbo, eccentrico e spregiudicato. L’anticonformismo che sale in cattedra (proprio come sono saliti in cattedra i meno stupidi protagonisti o comprimari di quella vicenda). La “repubblica del dolore”, che si ritrovava unita di fronte ai suoi drammi e che unita (grazie anche al Pci di Berlinguer) ha sconfitto il terrorismo rosso e nero (bisognerebbe sempre ricordare piazza del Duomo il giorno dei funerali dei morti della Banca dell’Agricoltura a Milano), sembra precipitare per quel genere di spettatori, comici irriducibili guerrieri del pensiero alternativo e dissacrante, nella nebbia della vecchia politica.
Così si resuscita Senzani, stratega di improbabili rivoluzioni contro il Pci, contro i sindacati, contro quell’infernale macchina che si chiama Stato. Tutto va bene, per un po’ di confusione, per non mischiarsi, per far lezione.
Oreste Pivetta