Tutto come (tristemente) prevedibile. Con una decisione quantomeno controversa, il film Sangue di Pippo Delbono ha vinto il Premio Don Chisciotte al Festival di Locarno. Il Pardo d’oro è andato a Historia de la meva mort di Albert Serra e, a parte il «pardino» al cortometraggio di Alessandro Falco La strada di Raffael, tutti gli altri premi hanno escluso l’Italia. Sangue, come si sa dopo il bailamme di questi giorni, è il film che accosta il dramma intimo del regista (ha filmato la madre morente) alle esternazioni deliranti di Giovanni Senzani, l’ultimo brigatista mai pentito, pluri sequestratore e assassino di Roberto Peci, ucciso nel 1981 soltanto perché fratello del brigatista pentito Patrizio e quindi «traditore».

In nessuna parte del mondo, neanche negli angoli più remoti, un terrorista viene celebrato in un film senza contraddittorio. Lui invece parla, esterna, minimizza. E nessuno che gli faccia anche solo la più innocente delle domandine. Niente. Roba tipo tribuna elettorale. Per di più realizzata con la collaborazione di Raicinema (per ora ignoto il finanziamento) e pure della Cineteca Nazionale e della Radiotelevisione svizzera (50mila franchi il contributo, poco più di quarantamila euro, che fanno gridare allo scandalo). Per chiarire, è stata presentata anche una interrogazione parlamentare.

In Francia i terroristi non possono neppure essere intervistati. Qui gli assassini (e mai parola fu più calzante, visto che Senzani oltretutto filmò la morte della propria vittima) vincono addirittura uno dei premi più rilevanti del Festival di Locarno se non altro perché attribuito dall’International Federation of Film Societies che dal 1947 sceglie nei festival i film ritenuti «importanti». A essere onesti, la motivazione lascia senza parole chiunque conosca anche solo di sfuggita Don Chisciotte di Cervantes. Basta leggerla: «Un film coraggioso e molto personale, che, come nel romanzo di Cervantes, intreccia la perdita di ideali, la morte, la lotta rivoluzionaria, la disillusione, il potere dell’arte e dell’amore».

Dunque Senzani, che ha scontato «appena» 17 anni di carcere pieno ed è pienamente libero dal 2010, viene assimilato a Don Chisciotte. E in nessuna parte della motivazione viene riferito che trattasi del capo più feroce della banda terroristica più sanguinaria del dopoguerra, anzi: nella motivazione della FICC è semplicemente «un ex membro delle Brigate Rosse». Tutto qui.

Nessuno che abbia vissuto quegli anni, o ancora ne porti le tracce di dolore, può trovarsi d’accordo con un premio giustificato perché «attraverso la morte si parla delle rivoluzioni, del sangue, ma soprattutto dell’amore, della vita». Sono parole vuote come quelle di Senzani che, anche nella conferenza stampa di Locarno, non ha mai fatto cenno della rilevanza spaventosa e turpe di un delitto con modalità mafiose (l’uccisione di un congiunto allo scopo di punire il «traditore») del quale, dopo oltre trent’anni, non si è neppure pentito. E stupisce che la truppa di indignati in servizio permanente effettivo, quelli che, magari legittimamente, alzano il dito contro qualsiasi minuscola effrazione del buon gusto o del politicamente corretto, stavolta non abbiano detto una parola. Niente. A dimostrazione che anche il dolore, in Italia, conta soltanto se conviene che conti.

Paolo Giordano