Riprendiamo dal Corriere del Ticino questo duro e sdegnato (ma sacrosanto!) bell’articolo. Il festival 2013 ha cercato (e trovato) il suo scandaletto a luci rosse, con tanta facile pubblicità (ci vuole anche quella, che diamine). Ma ai nostri occhi tra le piccole porcherie sessuali di un film da vedere di nascosto e la pornografica esibizione dell’assassino, nella gravità, non c’è alcun paragone possibile. [fdm]


Qualche anno fa, il «Corriere del­la Sera» scriveva che il Festival di Locarno aveva toccato il fondo. Ma non bisogna mai dire mai: la vocazione ad an­dare verso il basso è sempre forte e in certi ambienti non se ne può fare a meno.

In occasione della rassegna da poco terminata, grazie ad un battage pub­blicitario di ampio respiro, con il robu­sto contributo del nostro Telegiornale, il film Feuchtgebiete ha avuto il suo momento di visibilità. Si tratta di un film commerciale, di cassetta, privo di ogni valore culturale, incentivo al vol­tastomaco, definito durante la confe­renza stampa «una regressione allo stato anale». Quello che colpisce in questo film di­sgustoso è la sua pochezza, la sua vol­garità e la miseria morale con scene in cui, per esempio, quattro camerieri si masturbano sopra una pizza. Molte altre le scene di questo livello, con esplorazioni di corpi femminili con l’ausilio di vegetali e secrezioni me­struali, con immagini di bagni pubbli­ci sporchi e maleodoranti, in un fascio di inestricabili schifezze. È poi tutto un sovrapporsi di trivio, di sozzo, di puzzo, senza nulla rispar­miare allo spettatore.

Forse la giovane età e la brama di successo intrisa di vanità, hanno fatto sì che la bella Juri, con la quale la natura è stata genero­sa, abbia messo a disposizione tutto il suo corpo, in tutte le sue parti, alla realizzazione di questo ciarpame. Co­me miele sullo sterco per attirare le mosche. Ciò deve aver fatto gongolan­te il nuovo direttore Chatrian, nomi­nato a grande vitesse , subito dopo la partenza del fin troppo noto Père. Per­sonaggio che, dati i risultati, deve ap­partenere alla stessa ghenga dei suoi osannati, incensati e non rimpianti predecessori.

Non erano ancora calate le polemiche su questa schifezza di difficile defini­zione, che giungeva agli spettatori un film su uno dei più spregiudicati crimi­nali italiani, noto alle cronache per le sue efferatezze negli anni di piombo. Il Senzani (che circolava come una star sulla piazza di Locarno) è da poco uscito di galera, senza nessun penti­mento per i crimini commessi. Il filma­to (unico film italiano in concorso) non ha nessun riguardo per le vittime. Un racconto cinico, senza emozioni. Neanche per la figlia a cui è stato sot­tratto il papà con 11 colpi di rivoltella, dopo una lunga prigionia, colpevole solo di essere il fratello di un pentito.

Vittima di una rappresaglia di marca nazista, durante il sequestro il prigio­niero venne tenuto in condizioni infa­mi, sottoposto a maltrattamenti e pres­sioni psicologiche inaudite. Un lungo calvario, fatto di tragedia e di tormenti. Ciò che ha riempito di indignazione il procuratore generale di Torino Gian Carlo Caselli, che si era occupato a suo tempo del caso: «Per me è impossibile tacere» ha di­chiarato, dopo la performance del bri­gatista Senzani a Locarno. Ma la cosa ancora più sorprendente, semmai fos­se ancora possibile sorprendersi di qualche cosa, è che il film è stato rea­lizzato in coproduzione con la RSI e la Cineteca svizzera del Maire, già diret­tore del Festival.

E siccome non c’è due senza tre, è stato presentato in piazza anche il film Pea­ches Does Herselti, un campionario di erotomania, con orge, transessuali, er­mafroditi nudi, con protesi varie e con il concorso della nota attrice porno Danni Damiels. Detto questo, aggiun­giamo il fatto che il Festival non ha, per contro, accolto altri film di valore e di carattere sociale. Ha censurato in modo scandaloso opere che descrivono la sanguinosa dittatura messicana de­gli anni Trenta, con la persecuzione sanguinosa di un intero popolo. Queste drammatiche testimonianze storiche non entrano nel programma degli at­tuali padroni del vapore.

Giunti a questo punto, è forse il mo­mento di fare qualche domanda al presidente del Festival. Marco Solari è uomo colto, nutrito di buone letture, con esperienza e molte relazioni. Per giustificare queste rovinose cadute ha citato ripetutamente la frase di qual­che collaudato filosofo, lanciando pol­vere per gli orbi. Ha inoltre sempre consumato tutti gli aggettivi che si tro­vano sul vocabolario per incensare, lisciare e oliare a dismisura i direttori artistici e gli altri compagni di meren­da. Quest’anno, al Monte Verità, forse fiutando il vento, è stato più cauto con gli aggettivi ed è andato a raccogliere pensieri nell’antica Grecia, parlando della volpe e del riccio.

Giunto anche lui verso la fine della sua avventura, sarebbe spiacevole se non riuscisse in quest’ultimo tratto ad avere un moto d’orgoglio, un moto di dignità, uno scatto verso l’alto, sottraendosi al con­formismo e al pecorismo imperante. Forse potrebbe essere più utile trala­sciare di andare a pescare affannosa­mente aforismi nei secoli passati, ma accontentarsi di quanto scrive oggi nel suo libro Mario Postizzi. «Lasciata troppa sciolta la libertà è una catena in più». Non è molto diverso da quan­to cominciano a pensare taluni spon­sor, che si stanno chiedendo a cosa servano i loro soldi.

Armando Dadò, editore