Pubblichiamo, con l’esplicito consenso dell’Autore, questo severo articolo apparso su “Die Zeit” il 29 agosto. Tradotto dal tedesco a cura della redazione.

 TT1x


Quale tarantola ha morso gli organizzatori del Festival di Locarno? No, non sto parlando del Pardo d’Oro del catalano Albert Serra Historia de la meva mort, film che nessuno – ad eccezione dei giurati – ha compreso.

Parlo invece del brigatista rosso italiano, che è stato accolto come ospite dal più importante festival cinematografico della Svizzera poiché aveva un ruolo in uno dei film presentati. A Locarno lo si è invitato su un palcoscenico affinché raccontasse in qual modo aveva ucciso la sua vittima. Persino i giornalisti della Radiotelevisione ticinese hanno porto un microfono all’assassino; ciò che non può troppo stupire se si considera che essi hanno sempre un debole per i compagni che hanno sbagliato.

Quest’uomo, premurosamente intervistato, nel 1981 aveva rapito un giovane operaio, lo aveva tenuto prigioniero per 55 giorni in condizioni degradanti e torturato, almeno psichicamente. Alla fine di questo calvario lo aveva ucciso con 11 colpi d’arma da fuoco. Il “delitto” dell’assassinato: era fratello di un altro brigatista, che si era pentito e aveva rinnegato la violenza come metodo di lotta politica.

L’assassino, cui è stata data occasione di presentarsi a Locarno, non si è mai pentito delle sue azioni e non si è mai scusato per il suo atroce crimine. Benché condannato all’ergastolo, dopo 17 anni è stato rimesso in libertà. Oggi, regolati i suoi conti con la giustizia, egli vive da uomo libero.

Come si può invitare un simile uomo a un festival cinematografico svizzero, offrendogli la possibilità di descrivere gli orribili particolari del suo delitto? Come si può svelare la sua totale assenza di pentimento e, nello stesso tempo, avvalorare la tesi che, in fondo, egli è stato condannato solo perché le Brigate Rosse hanno perso la “guerra”? Secondo una simile perversa e abominevole logica i criminali di guerra della parte vincente non dovrebbero essere né perseguiti né condannati.

No, questa logica è spaventosa, semplicistica e inaccettabile. Eppure gli organizzatori del festival e la radiotelevisione pubblica ticinese l’hanno seguita. Per certi crimini la pena suprema dovrebbe essere l’indignazione della società civile. Noi non possiamo perdonare a un simile delinquente, se non scorgiamo in lui i segni di un autentico pentimento.

Per fortuna alcuni giornali ticinesi hanno reagito. Persino il ponderato e prudente Corriere della Sera ha preso le distanze dall’increscioso episodio. Discendenti delle vittime delle Brigate Rosse [in particolare la figlia di Roberto Peci, ndR] si sono fatti avanti, per dire che il film Sangue li aveva costretti a rivivere ancora una volta l’orrore del passato. Scioccante a chiunque è apparso il gelido cinismo e la precisione criminale con la quale il brigatista rosso ha descritto i particolari dell’esecuzione, senza mostrare un minimo di emozione umana.

Alcuni hanno giustificato il mancato pentimento con l’argomento che si sarebbe trattato di un processo politico [fatto al prigioniero Roberto Peci, ndR]. Questo ci induce a ricordare l’imperativo di Lenin: “Non domandate che cos’hanno fatto. Domandate chi sono!” Al termine del “processo” seguì l’esecuzione.

Io non attribuisco agli organizzatori del festival simpatie per movimenti estremistici e relative ideologie. Per lo meno spero che non ne nutrano. Proprio per questa ragione l’errore dei responsabili mi appare ancora più grave. Perché invitare sul podio un macellaio d’uomini? Per indifferenza? Per mancanza di coscienza storica? Oppure – e ciò sarebbe ancora peggio – al fine di sfruttare senza scrupoli la situazione puntando a un massimo di risonanza mediatica?

È così, non si scappa. È totalmente inaccettabile che la Direzione di una delle più importanti manifestazioni culturali svizzere, agendo senza riflettere, incespichi in una tanto pericolosa complicità.

Tito Tettamanti