Il professor Gerardo Rigozzi, direttore della Biblioteca cantonale, ci manda questo articolo, che riveste oggi un particolare interesse poiché, com’è noto, l’iniziativa che punta a un potenziamento dello studio della Civica nelle nostre scuole è brillantemente riuscita e ai primi di dicembre la Commissione scolastica del Gran Consiglio riceverà una delegazione del Comitato promotore, guidata dal primo firmatario dottor Alberto Siccardi.

Gerardo ed io siamo stati per anni colleghi docenti (lui più importante di me perché ha diretto Lugano 2, dove io stesso ho brevemente insegnato). Nei prossimi giorni Ticinolive intervisterà il professor Rigozzi su temi culturali (e magari anche politici) di interesse cantonale. (fdm)

Rigozzi sm

Dopo 25 anni passati nel settore della scuola, dapprima come docente alla Magistrale e poi come direttore del Liceo di Lugano 2, mi ero proposto di non occuparmi più di scuola: un settore in continua evoluzione, soggetto alle congiunture sociali e sempre in autoanalisi. Tuttavia l’argomento di cui si discute in questi giorni – quello dell’insegnamento della civica, a suo tempo bellamente snobbato a seguito della lodevole iniziativa dei giovani liberali GLRT – mi interessa per più di un motivo perché lo ritengo centrale nella riflessione sul ruolo della scuola pubblica. Purtroppo manca, su questo argomento, una vera analisi della situazione reale nei vari settori scolastici.

La mia pluriennale esperienza nella scuola e come genitore mi suggerisce che la formazione civica che i giovani ricevono (con una doverosa eccezione del settore professionale) è piuttosto carente: assente in certi casi, sfilacciata in altri. Ho l’impressione che i nostri allievi abbiano più opportunità di riflettere sull’evoluzione socio-economica e istituzionale dei cosiddetti paesi del terzo mondo, che sulla realtà del nostro Paese. I manuali adottati per l’insegnamento della storia menzionano soltanto di striscio la Svizzera; e anche i programmi di geografia sono più orientati alla comprensione delle macrostrutture che all’analisi della realtà paesaggistica e morfologica delle nostre regioni.

La scuola, come sostiene il direttore del Dipartimento, è una struttura complessa e difficile da orientare; in essa si riversano le più disparate esigenze della società e delle famiglie che tendono a delegarle sempre più compiti formativi nei diversi ambiti della salute, del comportamento e delle problematiche ambientali, psicologiche e sociali emergenti. È giusto che la scuola si occupi di tante cose, ma non può sopperire a una carenza educativa che sta a monte e che spetta ad altri. Per contro la formazione civica rientra nelle sue specifiche finalità di formazione del cittadino. La conoscenza delle istituzioni e delle sue dinamiche è altrettanto importante quanto la conoscenza della matematica, delle lingue e dell’ambiente in cui viviamo.

Sono fuori strada coloro che bollano la recente iniziativa sull’insegnamento della civica come un postulato della destra politica. Il problema va posto nella giusta dimensione di un aspetto centrale della formazione dei giovani, ben al di là quindi di supposti orientamenti politici. Allora cominciamo col dire che l’apprendimento delle fondamentali conoscenze delle istituzioni non si riduce a un pacchetto di nozioni da dispensare, né a vaghi accenni nei diversi programmi (quasi mai rispettati per mancanza di tempo). Esso necessita di un’impostazione seria e rigorosa e soprattutto di una trattazione in situazione, ovvero in relazione a tematiche concrete che coinvolgono le varie istanze istituzionali.

Faccio un esempio: la politica territoriale del nostro Paese fa riferimento a più tematiche e a diversi attori e processi istituzionali. Esaminare questa tematica e mettere a fuoco queste dinamiche vuol dire fare civica. Valga l’esempio metodologico proposto negli anni Settanta dal grande costituzionalista Jean François Aubert in Exposé des institutions politiques de la Suisse à partir de quelques affaires controversées (Lausanne 1978), con particolare riferimento alla questione del Giura.

Per fare questo, occorre però il personale docente adeguatamente formato e uno spazio ben definito di insegnamento. E qui potrebbe cascare l’asino per due ragioni: da una parte, come giustamente sostiene il direttore del DECS, non è pensabile aggiungere ulteriori ore d’insegnamento: ne andrebbe di mezzo la salute degli allievi, già sovraccarichi. Dall’altra ci sono i docenti e gli esperti che non accettano di rinunciare a parte del programma delle loro discipline.

Che fare allora? Direi che una soluzione dovrà essere forzatamente trovata, senza scuse e senza scappatoie, se la volontà politica è quella di considerare tale insegnamento come uno dei capisaldi dell’educazione pubblica.

Gerardo Rigozzi, direttore della Biblioteca cantonale