Un articolo coi fiocchi del nostro Marco, che pubblichiamo con piacere. *** Una precisazione. Tra i docenti di cui si parla sotto non c’erano professori di matematica, o quanto meno… non c’erano professori di mate diventati giornalisti! (fdm)


In Svizzera riteniamo ovvio poterci esprimere sui temi più disparati.  Non ci sono, però, altri Paesi al mondo dove i cittadini possano recarsi alle urne più volte l’anno, per promuovere o bocciare leggi, progetti e idee partorite da Governo, Parlamento, associazioni, lobby o gruppi indipendenti. Alcuni referendum e iniziative sono, oggettivamente, più importanti di altri. Certi sono persino in grado di cambiare il corso della storia del nostro Paese. Come accadde 21 anni fa, con la votazione sullo Spazio economico europeo.

Il 2 dicembre 1992 fu la mia prima volta. Non in quel senso. Fu la prima volta in cui potei recarmi alle urne per esprimere il mio parere, tra l’altro proprio su un argomento d’importanza epocale. Ero orgoglioso allora e lo sono ancora oggi di avere anche solo minimamente contribuito ad affossare la svendita di questo piccolo grande Paese!

Ricordo perfettamente gli scenari apocalittici che venivano dipinti da alcuni docenti del liceo che frequentavo, nel caso avessere vinto i “no”. L’aggettivo che ho scelto non è eccessivo, ve l’assicuro, perché chiunque ricordi le settimane precedenti la votazione, sa che non sto esagerando.

I soloni della politica, gli esperti, i politologi, gli economisti, le associazioni economiche, i mass media, il Consiglio federale, la quasi totalità dei partiti erano concordi. O si aderisce allo Spazio economico europeo, o sarà la fine per la nostra povera Svizzera. Si trattava, né più né meno, di terrorismo psicologico. L’arma dei deboli. E di quelli in malafede.

Persino il consigliere federale Pascal Delamuraz, in un celebre discorso, paventò scenari sconvolgenti. Mancava poco parlasse di fame e miseria agli angoli delle strade e il quadretto sarebbe stato completo. Uno dei mantra più ripetuti era quello delle opportunità e del lavoro per tutti. I nostri figli potranno andare a lavorare all’estero! Quanta ingenuità, se di ingenuità si può parlare.

In questo panorama desolante, in cui non solo le opinioni, ma anche e soprattutto i fatti venivano manipolati e la stampa sparava le solite e scontate cartucce del politicamente corretto, solo un politico di primo piano aveva deciso di battersi contro tutti, affinché la Svizzera rimanesse uno Stato realmente neutrale, indipendente e sovrano: Christoph Blocher.

Quel giorno mi avvicinai all’UDC. Un partito a cui io, e credo il resto del Paese, compresi quelli che non lo ammetteranno mai, devo profonda gratitudine per lo sforzo immane  profuso nella battaglia per non farci aderire allo Spazio economico europeo, l’anticamera dell’attuale brillante Unione europea.

Dibattiti in ogni cantone, città e cittadina della Svizzera, serate informative, ping pong televisivi, manifesti, volantini, articoli, bancarelle: una meravigliosa e pacifica macchina da guerra seppe combattere per la pace, il benessere, l‘indipendenza, le peculiarità, le tradizioni e la forza di questa fantastica Nazione. Uno sforzo immane che, nel corso degli anni, ha premiato l’UDC, facendola diventare il primo partito in Svizzera.

Da allora sono trascorsi 21 anni. L’adesione allo Spazio economico europeo è stata scongiurata. Quella per l’adesione all’Unione europea bloccata, anche se il Consiglio federale e il PS non demordono. Il primo non ha neanche il buon gusto di ritirare le domanda di adesione all’Ue, ignorando la volontà della stragrande maggioranza dei cittadini, il secondo di recente ha inserito l’adesione come obiettivo primario e strategico nel proprio programma elettorale.

Tutto bene ciò che finisce bene? Certo, se penso al 1992 ma le battaglie per la difesa dell’indipendenza del nostro Paese non solo non sono finite, ma sono diventate tutte di un’importanza epocale. 

Pensiamo ad esempio all’iniziativa contro l’immigrazione di massa, che avrà luogo il 9 febbraio 2014. Dopo quella contro lo Spazio economico europeo, quella del prossimo febbraio sarà la madre di tutte le battaglie. Quella in grado di fare la differenza. Quella che ci permetterà, se vinta, di sopravvivere all’omologazione unioneuropeista. In un Paese dove ci sono quattro comunità linguistiche, quindi dove gli equilibri politici, linguistici e culturali, sono più delicati rispetto a Paesi caratterizzati da monoculture, ci deve essere un limite all’immigrazione.

Quando si oltrepassa una certa soglia, che peraltro è già stata oltrepassata, si rischiano fratture, e fratture scomposte, in grado di mettere ko, per sempre, un corpo già comunque intaccato, pensamo ai 60’000 frontalieri e alle 21’000 padroncini del Canton Ticino. La malattia si chiama dunque internazionalismo. Ed è mortale.

Nessuno, per favore, ci venga a parlare di xenofobia, razzismo ed altre amenità del genere. La Svizzera ha dimostrato a tutto il mondo di reggere una pressione migratoria davanti alla quale tutti gli altri Paesi sarebbero capitolati. Da noi non esistono ghetti, né quartieri dove non può neppure entrare la polizia. Gli immigrati non solo hanno un tenore di vita che nei Paesi d’origine si sognerebbero, ma occupano, spesso, i vertici di aziende persino d’importanza strategica.

Io non sono contrario a priori alla via bilaterale. Ma sono contrario alla libera circolazione delle persone, a questa libera circolazione. Non raccontiamoci favole: sarà anche la cosa più bella del mondo per chi l’ha concepita. Ma c’è un ma. Non funziona. E quando una cosa non funziona, bisogna cambiarla. Come? Con il ritorno alla clausola della preferenza indigena.

I dati di cui disponiamo non lasciano adito a dubbi e interpretazioni, checché ne dicano i nostri avversari. I danni sono sotto gli occhi di tutti. Per quanto differenti siano gli approcci, le priorità e la sensibiltà di ognuno di noi, il tasso d’immigrazione in questo Paese ha raggiunto livelli draconiani. Il secondo classificato per presenza di stranieri è la Germania col 12,3%. Noi siamo al 23%, con punte del 26 e 28% rispettivamente in Ticino e nel Canton Ginevra.

Non dobbiamo scoraggiarci, però. Abbiamo più di uno strumento per ridare forza a indipendenza e neutralità del nostro Paese.

Un grimaldello per scardinare i progetti di disgregazione della Svizzera partoriti a Bruxelles con la complicità di cavalli di Troia dal passaporto rossocrociato, è l’Iniziativa Udc contro l’immigrazione di massa. La madre di tutte le battaglie. E un altro è l’opposizione all’estensione della libera circolazione delle persone, alla Croazia.

Nulla contro gli amici croati. Ma un no a Zagabria è, in realtà, un no a Bruxelles e a tutti i suoi ricatti. Significa parlare a nuora perché suocera intenda. L’Unione europea non accetterà mai che, a uno dei suoi membri, venga accordato un trattamento diverso rispetto agli altri e farà cadere i Bilaterali? Appunto. È proprio quello a cui miriamo. Per rinegoziare bisogna rimettere il tutto in discussione con un bel SI all’iniziativa UDC. 

La retorica non piace a nessuno. Ma non dobbiamo dimenticare che chi ha fondato questo Paese lo ha voluto libero e indipendente. E un Paese, per essere libero e indipendente, non può mettere in secondo piano norme e leggi che si è dato nel corso della storia, per sostituirli con il cosiddetto diritto internazionale che, nella prova dei fatti, si rivela con sempre maggior frequenza, come il diritto del più forte.

Accettare imposizioni dall’estero significa, sic et sempliciter, tradire il nostro Paese. E io non sono un traditore.

Marco Chiesa, capogruppo UDC