Mi scrive oggi un caro amico, l’ing. Rivo Cortonesi, fierissimo senese e “liberista ticinese”: “Caro Francesco, mi pare che Ticinolive sia un po’ troppo sbilanciato a favore del SÌ. Se posso darti un consiglio mi pare che lo stai anche un po’ troppo personalizzando sulle tue idee e la tua persona (…)” Bizzarro, che altro dovrei esporre (visto che ho una penna in mano e un bel portale a disposizione)? Non le mie idee? E allora quelle di Dick Marty? Di Fulvio Pelli? Di Manuele Bertoli? Di Paolo Bernasconi? Di Greta Gysin?

A Rivo, e a tutti voi, lettori e non lettori, dico: Ticinolive non è “neutrale” (non sente alcun bisogno di esserlo) ma è aperto. Per davvero, e non solo perché fa comodo dirlo. (fdm)

Articolo pubblicato nel Corriere del 28 gennaio. NOTA. Il 28 gennaio è una data per me molto importante perché quel giorno, nel palazzo reale di Londra, morì re Enrico VIII (1547).

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La cosiddetta “democrazia” è un metodo molto sbrigativo attraverso il quale una maggioranza di despoti può imporre la propria opinione ad una minoranza. Ogni volta che sono chiamato alle urne per esprimere un giudizio su un’iniziativa popolare (SÌ o NO) sono dunque perfettamente cosciente della enorme prevaricazione che, con il mio voto, mi accingo a fare o a subire su o da chi non la pensa come me. In una società anarco-capitalista, alla quale i libertari si ispirano, un’iniziativa come quella “contro l’immigrazione di massa” non sarebbe possibile, per il semplice fatto che nessuno Stato nazionale, per via istituzionale (governo e parlamento) o attraverso il pronunciamento di una maggioranza dei suoi cittadini (democrazia diretta), potrebbe sostituirsi alle decisioni libere e responsabili di ogni singolo individuo, proprietario vero e assoluto dei frutti del proprio lavoro, incluso ogni centimetro quadrato del territorio dove abita.

Oggi non siamo più proprietari di niente. Qualche esempio, ma potrei farne tantissimi. Provate a non pagare le tasse sulla casa. Ve la portano via. Dunque come fate a dire che è vostra? Siete obbligati a pagare il canone radiotelevisivo alla Billag, che, per legge dello Stato, ne riversa poi una parte a delle emittenti “private”. Qualcuno vi ha mai convocato ad un assemblea dei piccoli azionisti di una di esse? Eppure lo siete a tutti gli effetti, perché senza i vostri soldi quella società non starebbe in piedi. L’iniziativa popolare “contro l’immigrazione di massa” si cala in questo quadro ormai desolato della proprietà (e quindi della libertà) individuale, mischiando due cose diverse: l’immigrazione e il frontalierato.

La prima, l’immigrazione, è un fenomeno che affonda le sue radici (esattamente come quelle del manifesto degli iniziativisti), nella profondità dei compiti che lo Stato ha avocato a sé, in primis quelli legati al welfare. Questi compiti sono finanziati dallo Stato attraverso le tasse, cioè attraverso la violazione sistematica della proprietà privata dei cittadini. La scusa, lo sappiamo, è sempre quella di dover offrire servizi e soddisfare bisogni, che spesso, ahimé, non coincidono però con quelli di chi dovrebbe ringraziare per tanta premura. È dunque naturale che i cittadini si sentano buggerati se hanno la sensazione o addirittura le prove che i soldi sottratti loro con un atto coercitivo siano utilizzati a vantaggio di altri, soprattutto se al riparo dalla stessa coercizione e per lo più stranieri.

Il secondo, il frontalierato, è invece inquadrabile come libera scelta di un servizio, piuttosto che di una qualsiasi merce. Lo so che esso può avere risvolti negativi per i lavoratori indigeni coinvolti nel fenomeno, esattamente come l’acquisto di merce a basso costo da altri paesi ha fatto chiudere aziende svizzere o ne impedisce lo sviluppo in quello specifico settore. Non per questo abbiamo smesso di acquistare quelle merci dai paesi che le producono. E non mi è mai capitato che qualche burocrate si sia frapposto al mio acquisto di pile cinesi intimandomi di dare la precedenza a quelle prodotte in Svizzera. I frontalieri, come del resto i padroncini, non sono degli immigrati, ma dei fornitori di servizi, che arrivano, lavorano e la sera tornano a casa loro.

Ovviamente si può decidere di frapporre qualsiasi ostacolo al libero scambio di merci e servizi, ma, a parte il problema, affatto secondario, della violazione della libertà di ognuno di scambiare con chiunque egli lo desideri i frutti del proprio lavoro, il protezionismo non è mai la soluzione dei problemi, anzi. A volte mi capita di accompagnare mia moglie negli approvvigionamenti del sabato. Ho potuto constatare che da quando il mercato alimentare è stato aperto alla concorrenza dei grandi gruppi stranieri, i prezzi di molti prodotti alimentari sono diventati molto più abbordabili. Al punto da poter affermare, senza tema di smentite, che non sono le spese per il vitto quelle che mettono oggi in crisi i bilanci familiari.

Poi torni a casa e ti confronti con una serie di bollette relative a servizi gestiti in condizioni di monopolio o di “falsa concorrenza”, come ad esempio i premi di cassa malati, dove la scelta della propria compagnia di assicurazione avviene all’interno di un recinto i cui paletti sono stati piantati dalle case farmaceutiche e dalla lobby medica. Fai due conti e ti accorgi quanto siano vere le ragioni addotte dai lavoratori indigeni per ricevere un salario all’altezza del costo della vita in Svizzera. Mi chiedo: ma perché ciò che ha cominciato a funzionare così bene nell’alimentare non può funzionare altrettanto bene in altri settori protetti? Perché solo le aziende, specie quelle più confrontate con una feroce concorrenza internazionale e un’economia incerta, dovrebbero farsi carico totalmente di questo problema? A questa domanda, penso plausibile, l’iniziativa non dà una risposta. Per questo non ho intenzione di premiarla con il mio voto.

Rivo Cortonesi, Liberisti ticinesi