Burocrati e politici europei contro i diritti popolari

Sono passati ormai due mesi, ma l’esito del voto popolare contro l’immigrazione di massa seguita a suscitare reazioni di vario tipo al nostro interno e, soprattutto, all’estero. Dopo le esternazioni tracotanti di alcuni politici europei, spesso totalmente privi di legittimità democratica, altri esponenti del Vecchio continente hanno avanzato critiche  meno rozze e più velate, ma non per questo irrilevanti, all’indirizzo del voto elvetico. All’insolenza dell’esponente della CDU tedesca Andreas Schwab, che ritiene che certe tematiche non debbano essere sottoposte al voto popolare (complimenti per l’alto spirito democratico e il rispetto dei cittadini !), il presidente tedesco, Joachim Gauck, in visita ufficiale in Svizzera nei giorni scorsi, ha rilasciato dichiarazioni amichevoli e decisamente  più raffinate nei nostri confronti, affermando   tuttavia che la democrazia diretta porta con sé dei pericoli.

Il termine “pericolo”, riferito alla democrazia diretta, risulta però per noi particolarmente gravoso, toccando il cuore e i valori fondamentali della nostra storia e della nostra società. Colpisce altresì il fatto che a sventolare la bandiera dei pericoli derivanti dalla democrazia diretta siano i massimi rappresentanti di un continente, quello europeo, che nel secolo scorso, nonostante i picchi di grande cultura raggiunti,   è riuscito a scatenare due guerre mondiali che hanno comportato un tributo umano tragicamente allucinante, quantificabile in decine e decine di milioni di morti.

L’Unione europea è  nata anche come risposta di pace e di stabilità ad un continente smembrato e martoriato dalle tragedie di questi conflitti, ma, con l’andare del tempo, questo organismo si è vieppiù trasformato in una struttura burocratica e nient’affatto democratica,  che ha bellamente calpestato  gran parte delle sovranità   e delle libertà dei Paesi membri. 

Non bisogna pertanto stupirsi se adesso, sulle macerie di una crisi economica e finanziaria che ha messo ulteriormente in ginocchio un continente ormai in declino, alcuni governi siano letteralmente terrorizzati dalla prospettiva che, alle prossime elezioni europee di maggio, il popolo rifili una sonora sberla ai burocrati di Bruxelles. Per questo motivo, il voto popolare e la democrazia diretta , in stile elvetico, fanno paura ad un’establishment europeo che sembra rappresentare solo sé stesso e il suo apparato di riferimento.

La questione identitaria e quella della sovranità nazionale   stanno indubbiamente rioccupando, a giusta ragione,  un ruolo  per troppo negletto e umiliato  da un potere politico e culturale che, in nome del “dogma europeo”, ha preferito strumentalmente tacciare di populista  e di xenofobo chi intendeva rappresentare certe istanze. Questo giochino potrebbe davvero essere terminato.

Intanto, la situazione sul piano economico resta  molto grave e i fatti  lo confermano.  In Eurolandia (i Paesi che hanno adottato l’euro) il tasso dei senza lavoro veleggia intorno al 12%, con Paesi dove la disoccupazione giovanile supera il 40%  e il debito pubblico si aggira   al 100% e anche oltre del Prodotto Interno Lordo,  mentre gli organismi finanziari sovranazionali stanno letteralmente falciando le gambe a  nazioni  strutturalmente fragili (Grecia e Portogallo, per esempio), che continuano ad impoverire. In Europea c’è un’evidente emergenza sociale che si ripercuote anche sulla Svizzera; si pensi solo alle scriteriate conseguenze   del frontalierato fuori controllo che ha investito il Canton Ticino.

L’immigrazione di massa – che è un  dato di fatto –  tocca molti paesi europei, soprattutto  le ex potenze coloniali, quali  la Francia e la Gran Bretagna, al cui interno, accanto alle immense sacche di disoccupazione, si stanno creando   delle vere e proprie società parallele. Oltre alla crisi economica, vi sono problemi politici, sociali e culturali, come nel Regno Unito, dove  si è addirittura arrivati ad istituire dei tribunali   per le cause civili che si rifanno alla legge islamica, la “sharia”. Non a caso, proprio  l’Inghilterra, alla quale i diktat di Bruxelles non sono mai piaciuti molto, ha fatto nelle scorse settimane la voce grossa, mettendo alcuni paletti – pesanti come macigni- per la sua permanenza nell’UE. Il primo ministro Cameron ha infatti   indicato al riguardo sette condizioni, che comprendono, fra l’altro, il freno alle “migrazioni di massa”, la restituzione dei poteri agli Stati sovrani (ohibò, vuoi vedere che la sovranità nazionale torna ad essere un valore condiviso?), la diminuzione della burocrazia europea e il rafforzamento degli accordi di libero scambio con l’America e l’Asia (le aziende svizzere hanno compreso da un pezzo che, al di fuori dell’UE,   ci sono importanti mercati emergenti). Le condizioni del primo ministro Cameron hanno un sapore chiaramente preelettorale, in vista del voto europeo di maggio e alla luce del crescente euroscetticimo inglese, però non va sottovalutato il fatto che questo sentimento trova sempre più consensi dentro  e fuori l’Inghilterra.     

Nonostante la nostra storia, i nostri valori, il nostro benessere e i ripetuti e chiari responsi del popolo sovrano, da noi c’è pure chi, come il Partito Socialista e altri gruppi politici ed economici, vorrebbe entrare in questa Unione Europea. La risposta da dare a costoro è una sola.

Iris Canonica