UTOPIA, POPULISMO O REALISMO?
LE ISTITUZIONI PUBBLICHE FRA CAMBIAMENTI EPOCALI
E NUOVI MODELLI DI SVILUPPO

La consapevolezza che l’attuale, cosiddetta crisi, in realtà non rappresenti affatto una delle periodiche depressioni dell’economia, ma una mutazione radicale del modo di vivere e di concepire la società, si va da tempo facendo strada in alcuni ambienti accademici, assai meno in quelli politici. La cultura in generale , per non parlare della ricerca scientifica , anticipa di solito i grandi cambiamenti della storia, e per questo viene spesso tacciata di utopismo, ovviamente in senso spregiativo, al contrario di quanto è abituato a fare il pensiero puro, che vede proprio nella utopia , intesa nella corretta accezione greca di ciò che non esiste in nessun luogo , la principale molla dell’evoluzione e del progresso. Tali considerazioni hanno indotto diversi autori a definire l’epoca presente come una fase di profonda trasformazione antropologica, paragonabile ai grandi eventi che segnarono il passaggio dal mondo classico a quello medioevale, o da questo all’età moderna e contemporanea.

Proprio sull’onda di tali riflessioni si è sviluppato uno specifico settore delle scienze umane, soprattutto dell’antropologia e delle sociologia, definito funzionalismo, fratello minore ma non meno importante del più antico strutturalismo. Ma su cosa si basa, in sintesi, questo filone di ricerca? Semplicemente su tale assunto di fondo: qualsiasi struttura, istituzione o modello sociale, svolge una funzione positiva finché si rivela capace di risolvere i problemi per i quali è sorta. Nel momento in cui dismette tale ruolo, quale ne sia la causa, si trasforma ipso facto da fattore di ordine e di progresso, in fattore di disordine , di spreco e di paralisi per l’intera società,( esempio tipico quello degli enti inutili, residuati fossili di un lontano passato) : da funzionale che era diviene pertanto disfunzionale.

Questa premessa teorica serve ad inquadrare razionalmente ciò che sta accadendo nel nostro Paese, e non soltanto nel nostro, ma nell’intera Europa e in gran parte dell’Occidente. Siccome, tuttavia, siamo italiani, è dell’Italia che dobbiamo occuparci in primis, coscienti che ove si risolvesse l’impasse in cui versa la nostra società, ciò rappresenterebbe un precedente di enorme significato generale, su come risolvere i problemi, per quanto incancreniti possano essere.

Oggi viviamo uno di quei momenti eccezionali della storia , che sempre coincidono con le rapide e grandi trasformazioni, in cui scienza e filosofia prevalgono nettamente sulla politica. Quest’ultima , infatti, ha sfogliato fino all’ultima pagina il suo tradizionale libro delle regole , impantanandosi in un totale immobilismo e deserto d’idee , che attraversa indistintamente tutti i partiti , le differenze fra i quali diventano ogni giorno più tenui. Essi girano a vuoto intorno a concetti scontati e genericamente condivisibili, quali la ripresa, lo sviluppo, l’equità sociale , la lotta alla criminalità, alla spesa pubblica e all’evasione fiscale. Se però dagli annunci si passa alle realizzazioni concrete, l’asino casca. Al di là della retorica di parte, i soli rimedi proposti riguardano lo 0,5 o 1% di risorse da trasferire dal settore A a quello B , come i famosi 80 Euro in busta paga, che si promettono a certe categorie sottraendoli ad altre, pur sempre povere, nella folle presunzione che chi incassa 1000 sia più propenso a spendere di chi guadagna 1500, e così via.
Ogni progetto utile, compresi gli investimenti infrastrutturali, nella formazione e nella cultura, che sarebbero indispensabili per far ripartire l’economia, vengono bloccati sine die in attesa d’inesistenti coperture , termine assolutamente ridicolo in un Paese che vive sullo spreco e sul ladrocinio sistematici. Tutto questo affannarsi dei partiti per spostare quattro soldi da un settore all’altro, obbedendo agli ordini delle proprie clientele, non è che vana retorica di quei cembali suonanti di cui scrive S. Paolo in una celebre lettera. Gli elettori , molto più intelligenti di quanto li stimino i padroni del vapore, lo hanno perfettamente capito, tanto che metà di essi si astiene dal voto, svuotando di significato la stessa parola democrazia.

La differenza tra la politica e la scienza è infatti questa: che la prima ha come orizzonte temporale le elezioni più vicine, la seconda lo sviluppo a medio-lungo termine dei modelli sociali. E se vogliamo che l’Italia si salvi, indicando magari ai suoi stessi partner una via d’uscita dalla crisi, è di modelli in senso olistico che dobbiamo trattare. Affermando questo saremo chiamati utopisti? Nell’accezione ellenica del termine, ci onoriamo di tale appellativo. L’unica strada per propiziare una ripresa della civiltà, prima che dell’economia, è cambiare alla radice le regole della nostra vita in comune, abbandonando le mortifere incrostazioni accumulate negli scorsi decenni, per dar vita a nuovi rapporti umani e sociali. A simile conclusione ci spinge proprio quel funzionalismo ricordato all’inizio: un modello di sviluppo come l’attuale si pone ormai quale principale ostacolo al progresso e quindi, in tempi lunghi, alla stessa sopravvivenza della nostra società.

La ragione ci obbliga quindi a sostituirlo il più rapidamente possibile con uno del tutto inedito , privo di condizionamenti culturali e ideologici passati. Per far questo, tuttavia, occorre dotarsi di istituzioni pubbliche completamente diverse da quelle esistenti, in grado di restituire al popolo la legittima sovranità che esse gli hanno sottratto. In particolare, occorre fare uscire il nostro sistema socio-politico dal ricatto dei poteri forti, che tentano con ogni mezzo di ridurre alla miseria il Paese, per acquisire le ricchezze e le aziende più sane a prezzi di realizzo, come la cronaca quotidiana conferma. I partiti, o quel che di loro oggi rimane, appaiono totalmente asserviti ai potentati finanziari e del tutto incapaci a mediare la volontà popolare a livello delle istituzioni. La crisi della rappresentanza discende essenzialmente da questo fenomeno.

Il superamento di questa situazione diverrà quindi possibile soltanto se nasceranno nuove istituzioni di democrazia diretta e di democrazia sociale, in grado di rappresentare davvero la volontà di tutti, indipendentemente dall’appartenenza all’uno o all’altro gruppo di pressione. Per ottenere ciò è indispensabile limitare considerevolmente l’attuale potere dei partiti, al servizio della grande finanza internazionale, e dare voce al popolo che produce, studia e lavora, tramite le diverse organizzazioni sociali in cui esso si esprime. Purtroppo, le tanto strombazzate riforme renziane vanno tutte in direzione opposta.

E’ utopismo questo? Oppure populismo? A me sembra una sana forma di realismo, la sola via d’uscita non ideologica, bensì una puntuale applicazione di quella rigorosa analisi socio-antropologica funzionalista accennata all’inizio.

Per quanto riguarda le forze politiche in campo, la prima che si calerà in questa dimensione e adotterà questo linguaggio , avrà una seria possibilità di catturare quell’immenso partito rappresentato dal non-voto , assicurandosi una schiacciante vittoria.

Carlo Vivaldi-Forti