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Sono ormai passati 20 anni da quando morirono delle persone a causa del vino al metanolo. Negli anni novanta fu la volta della contaminazione bovina con lo scoppio del caso “vacca pazza” (di cui si ebbe notizia del primo caso nel 1986 nell’ UK), nel 1999 nel Belgio si consumò la bufera dei mangimi animali alla diossina, mentre nel 2003 si ebbe in Campania il caso della mozzarella di bufala alla diossina con il sequestro di 5.720 capi di bestiame tra bufale, bovini e caprini.

Oggi con la globalizzazione aumentano le importazioni e non solo si minaccia il made in Italy con ripercussioni economiche non indifferenti, ma soprattutto viene messa a repentaglio la salute dei cittadini poiché non è più garantita la sicurezza alimentare. Sulle nostre tavole arrivano le farine cinesi, l’olio lampante dalla Spagna mescolato ad olio extravergine, i maiali dalla Germania provenienti da allevamenti intensivi con alti tassi antibiotici nella carne, che vengono poi spacciati come prosciutti D.O.C regionali.

Dal rischio alimentare già era difficile salvarsi prima ma se ad aggravare il tutto ci si mette per prima la Comunità Europea risulta ancor più intricata la faccenda. Nel 2008 Bruxelles esorta l’Italia a cancellare il decreto che impone ai produttori di esporre sull’etichetta la provenienza della materia prima, pena la messa in mora dell’Italia con avvio di procedura di infrazione.
Il tema della sicurezza alimentare si ripropone di anno in anno e di scandalo in scandalo con le medesime modalità: mancati controlli, esagerato allarmismo che disincentiva la fiducia del consumatore, danni ad intere filiere alimentari; ma passato il tormentone del misfatto tutto tace e ci si dimentica delle insidie in agguato.

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Sorge la domanda: “Che cosa si può fare per difendersi?”.

Una risposta assai banale ma immediata che si richiama alla nostra quotidianità di consumatori è la seguente: comprare non solo è una scelta personale secondo i propri gusti ma è come un voto che manda avanti la produzione di un prodotto e l’economia del produttore che ci sta dietro per cui, una volta che si tiene a mente questo concetto, è meglio consumare alimenti a filiera corta forniti da produttori noti, comprando da mercati rionali i così detti alimenti a chilometri zero.

A livello globale invece si dovrebbero effettuare controlli, renderne pubblici i risultati, diffondere i nomi dei colpevoli o delle industrie alimentari responsabili di illegalità anche sui siti del ministero della salute al fine di tutelare chi produce onestamente senza mettere sotto accusa un intero settore. Inoltre bisognerebbe pubblicizzare attraverso i media il prodotto “made in Italy” non come un qualcosa di bello e buono ma come un tipo di alimento sano, controllato e garantito al fine di ridare fiducia al consumatore.

La torre di guardia sulla sicurezza alimentare in Italia è il Ministero della Salute mentre a livello Europeo vi è l’Agenzia nazionale per la sicurezza alimentare, incaricata di valutarne e comunicarne i rischi. Questi due organi imprescindibili andrebbero valorizzati per il loro lavoro continuo di monitoraggio sul territorio e potenziati con ulteriori investimenti pubblici miranti a svilupparne ed affinarne le attività di sorveglianza sul territorio.

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Certamente la filiera corta ha vantaggi lunghi di immediato riscontro; in primis, ovviamente, la riduzione delle distanze tra chi produce e chi consuma, poi il ridimensionamento del ciclo commerciale del prodotto, ciò che garantisce costi più contenuti, l’aumento della qualità dei prodotti locali, e infine la riduzione dell’inquinamento ambientale visto che secondo il rapporto Millennium Ecosystem Assessment, richiesto dagli USA, che ha coinvolto 1300 studiosi, il trasporto alimentare di lungo metraggio causa un pesante aggravio dell’inquinamento globale.

Un primo esempio di prodotti a filiera corta lo diede il Regno Unito, introducendo delle etichette che specificavano sotto la voce food miles le miglia percorse dall’alimento per arrivare al supermercato.

Si può solo sperare che anche dietro la filiera corta dei prodotti a chilometri zero non si costituiscano nuovi interessi di marketing e di illecito profitto, che minerebbero la qualità dei prodotti e la salute dei cittadini.

Gianna Finardi