“Una “pari opportunità” che nella vita non esiste e non esisterà mai!” (scuola)
“Con quel pezzo di carta…” (puntini puntini)
“Nel nostro settore il dumping salariale è fortissimo”
“L’è sempar stai inscì, possibile che non si sappia dire altro?”

Quando ho saputo che il mio amico Ryan Vannin apriva il suo nuovo portale Tipiù www.tipiu.com mi sono subito affrettato a proporgli un’intervista. Eccolo qui, Ryan, tutto d’un pezzo: innovativo, deciso, talvolta sferzante e provocatorio. Lui vuole vincere ma se necessario è capace di accettare anche una (temporanea) sconfitta.

Un’intervista di Francesco De Maria.

RyanFrancesco De Maria  Ci presenti la sua nuova creazione “Tipiù”. Che cos’è? Quali fini si prefigge? Come funzionerà?

Ryan Vannin  Vivendo quotidianamente a contatto con le startup e le giovani imprese ci siamo resi conto che la nostra è una realtà molto vivace e in fermento, che sta crescendo giorno dopo giorno. È una realtà composta anche da persone e da imprese, che nel loro ambito, sono leader a livello mondiale. Eppure, a parte alcuni sporadici accenni, di questo sistema e delle sue dinamiche — secondo noi — non se ne parla a sufficienza o non in un modo che sia “appetibile”. I media danno molto spazio alla cronaca, alla politica, allo sport e alla finanza. Ma a nostro avviso è l’economia “reale” quella che alimenta la spirale di crescita e che ci permette di stare ai vertici delle classifiche internazionali per competitività e innovazione.

Così nasce Tipiù, un magazine online che vuole raccontare il valore aggiunto dell’economia ticinese e vuole essere un punto di riferimento e una risorsa per chiunque desidera essere informato su temi che spaziano dall’imprenditoria — passando dalla tecnologia e dalla formazione — all’innovazione della Svizzera italiana. Il nostro obiettivo è semplice: scoprire e diffondere fatti e storie che contribuiscono a rendere il nostro territorio un posto migliore ogni giorno e fungere da cassa di risonanza, da PR per chi si adopera in tal senso. Come per tutte le nuove iniziative siamo ancora in una fase di lancio che durerà ancora qualche mese; sappiamo dove vogliamo arrivare, ma come arrivarci è, per ora, un esperimento. Siamo anche noi in costante evoluzione e cambiamento, il che — in fondo — è perfettamente in linea con la realtà che vogliamo raccontare…

“Il Ticino ha goduto per decenni di una rendita di posizione incredibile. L’ha saputa sfruttare e si è arricchito. Ora che certi vantaggi (primo fra tutti: il segreto bancario) sono andati persi, sembra aver imboccato la via della decadenza.” Questo genere di analisi, alquanto impietosa, la si sente spesso in giro. Lei l’accetta?

RV  È, ahimè, un’analisi che va accettata. Mentre il mondo attorno a noi è cambiato, e anche molto, la piccola realtà che è il Canton Ticino è rimasta sospesa in un limbo, tra il (troppo) benessere e il (troppo) autocompiacimento. Ci siamo dimenticati di cosa significa “avere fame”, fare fatica, competere con chi è più grande e grosso di noi. E questo, a lungo andare, ci ha indeboliti nello spirito e anche nell’essere risoluti quando si tratta di prendere decisioni. Credo che si prospetteranno anni sempre più duri e difficili e solo chi oggi inizierà ad accettare che le cose non saranno più come nel passato riuscirà ad intraprendere delle azioni per limitare i danni. C’è forse ancora troppa paura e un po’ poco coraggio di lanciarsi nel nuovo. Però ne usciremo, forse fra qualche anno, grazie soprattutto a coloro i quali si rimboccheranno le maniche per ridare slancio al nostro territorio e alla nostra economia. E, mi permetta, è di loro che vogliamo parlare. Sono le loro storie che meritano e meriteranno di essere raccontate.

Che cosa pensa delle proteste, spesso giovanili, organizzate su Facebook, o altrove, contro la mancanza di lavoro e di prospettive? Simpatizza? Le giudica utili?

RV  Tutti coloro che manifestano un disagio, motivato, hanno il mio sostegno. Per quanto riguarda i giovani, a me sembra che non abbiamo più passioni, determinazione e ho come la sensazione che non siano capaci di immaginarsi un futuro o di crearselo. Non colgono le opportunità e si lasciano un po’, come dire, sballottare dagli eventi. È colpa, se proprio la vogliamo dare, innanzitutto di un certo modo di pensare affermatosi con la generazione dei miei genitori e perpetrata anche dalla mia (sono vicino agli ‘anta…): “trovati un lavoro sicuro, un buon stipendio (possibilmente in banca e/o statale) e rimanici fino alla beata quiescenza” è una frase che mi sono sentito (e penso molti altri della mia età) all’infinito. Questo è un modo di pensare ormai incompatibile con la realtà.

Poi una parte di responsabilità l’ha un po’ anche la scuola. Quella che ho frequentato io, e non credo sia tanto diversa quella di oggi, infonde false speranze e un po’ illude i giovani. Fa loro credere che siamo tutti uguali, che abbiamo tutti le stesse condizioni di partenza, ma non è così. C’è forse solo un 1% di giovani che hanno già la strada spianata, qualsiasi cosa decidano di fare della loro vita, ma è il restante 99% dovrà costruirsela da solo. Fare un apprendistato o una formazione industriale è ancora, ahimè, considerato umiliante e declassante. Eppure abbiamo bisogno di gente che non solo sa pensare, ma che soprattutto sappia fare. Finché la scuola ticinese sarà garante di una “pari opportunità” che nella vita non esiste e mai esisterà, temo che usciranno troppi ragazzi convinti che tutto gli sia dovuto. Dopo, la delusione è tanta. Chieda ad un neo-laureato cosa ne pensa della sua formazione e le risponderà, se è di buone maniere: “con quel pezzo di carta mi pulisco il… sedere. Potessi tornare indietro sarei andato a fare l’apprendista idraulico”. Non è un segnale che dovrebbe far riflettere?

Si parla moltissimo – lo fanno i politici, troppo spesso con leggerezza, e solo per riempirsi la bocca – di innovazione e di “alto valore aggiunto” (riversando una congrua dose di disprezzo sul “basso” v.a.) ma… mi porti tre esempi concreti, ticinesi, reali e non semplicemente futuribili.

RV  È un concetto teorico: il valore aggiunto è tutto ciò che crea un effetto diretto, indiretto e indotto in un determinato territorio. Può, inaspettatamente, generare più “valore aggiunto” un “kebabbaro” a Cassarate di una grande impresa internazionale che si trasferisce nel Mendrisiotto. Questo perché il primo assume giovani residenti e fa buoni profitti (effetto diretto), perché paga le imposte e permette alle famiglie dei dipendenti di poter fare degli acquisti senza timore di non arrivare alla fine del mese (effetto indiretto) e perché affida ad un’istituzione un progetto di ricerca sul consumo del panino etnico e dà magari del lavoro a terzi fornitori che, anche a loro volta, potranno stare in piedi e alimentare il circuito (effetto indotto). La grande impresa invece può sì assumere qualche indigeno per compiacere le autorità, ma se poi non paga imposte (o ne paga poche) e i mandati li affida all’estero perché ritiene che da noi manchino certe competenze o che i prezzi non siano competitivi, allora il circuito non si attiva del tutto, viene a mancare quel “più” che è il risultato che si ottiene ad ogni “giro”.

Quello che però differenzia il commerciante da una grande realtà è il tipo di business: un chiosco di Kebab è difficilmente scalabile e, oggettivamente, poco innovativo. L’innovazione è il risultato di un’invenzione fruibile dal mercato e che ha come conseguenza una rapida, consistente e sostenibile crescita in grado di generare nel lungo periodo, appunto, degli effetti diretti, indiretti e indotti. Ma è solo il mercato che ne decreta il successo. Trovare e o far crescere imprese con queste premesse non è evidente, non vi sono certezze e il compito di chi le valuta è molto intenso e complesso.

Più che 3 imprese posso citarle 3 settori: il chimico-farmaceutico, l’ingegneria meccanica e le scienze della vita. Poi hanno buone chance imprese che operano nel settore del benessere e del “well-aging”, il “clean tech” e l’informatica avanzata. Infine aggiungerei anche la logistica, i trasporti e il settore della moda.

Per quale ragione il Ticino dovrebbe avere un suo tipico “alto valore aggiunto”? Se questo esiste, me lo definisca.

RV  Perché ogni territorio ha le sue peculiarità. E il Ticino non fa eccezione. Però non esiste un unico alto valore aggiunto, dipende da troppe variabili. 30 anni fa si puntava sul turismo e sulla finanza, oggi gli scenari sono mutati in pochi anni. Nessuno, credo, può sapere con certezza su cosa valga la pena di investire ad occhi chiusi. Detto questo, il nostro enorme vantaggio è rappresentato dalla presenza di istituzioni molto dinamiche: l’USI, la SUPSI, l’IRB, lo IOSI, il Centro di calcolo, il cardiocentro e numerosi centri di competenza e di ricerca che sono dei gioielli. Il ticinese un po’ li sottovaluta, ma tutto ciò che ruota attorno a queste realtà credo possa definirsi di “alto valore aggiunto” e merita attenzione.

Nel vostro campo (comunicazione, informatica, …) il dumping salariale è intenso o moderato?

RV  La pressione è sempre stata fortissima, ma oggi è ancora peggio. Da una parte, a causa della crisi, le imprese hanno ridotto i loro budget, dall’altra la concorrenza obbliga chi opera nel settore a continuamente reinventarsi e a proporre soluzioni sempre attuali. Ciò richiede grossi investimenti. Noi siamo piccoli e fortunatamente abbiamo una struttura dinamica, ma le società più grandi penso che facciano molta più fatica a riorientarsi; da qualche parte devono contenere i costi. Purtroppo, e siamo alle solite, da oltrefrontiera arrivano aziende, spesso improvvisate e che non sempre operano secondo le regole… Non a caso la Tripartita ha dovuto intervenire. e fissare un salario minimo.

Il vostro progetto prevede per “Tipiù” un ruolo puramente comunicativo? O c’è dell’altro?

RV  Su Tipiù non tratteremo, mai, di politica, religione, fatti di cronaca o di sport. L’ambizione è di essere solo e soltanto uno strumento di promozione rivolto alle imprese dal Ticino per il Ticino, la Svizzera e il resto dell’Europa sfruttando tutti quei canali che sono nati con l’avvento di internet. Ma non nasce per la gloria o come strumento fine a sé stesso. L’intento è di rendere Tipiù un’attività che al più presto possa divenire auto-sufficiente e assumere dei collaboratori. Il lavoro che si prospetta è molto…

Sul suo nuovo portale lei scrive dell’ “esperienza tormentata di “Nearbors”. Che cos’è (o era) Nearbors? E che cos’è successo?

RV  Nearbors voleva mettere in contatto persone in movimento con persone che non volevano o potevano muoversi. In pratica un’innovativa piattaforma di consegna degli acquisti tramite fattorini occasionali. Abbiamo tentato di lanciarla e sicuramente c’era molto interesse: siamo stati invitati a San Francisco e a Berlino, abbiamo avuto il sostegno di Agire, della CP Startup e del CTI ma, come per ogni startup, l’inghippo è stato trovare finanziamenti sufficienti per partire. Il tempo è passato e altri sono stati più bravi e veloci nell’andare sul mercato. Come startup abbiamo adottato una metodologia chiamata “lean”, che vuole che si fallisca presto e rapidamente (per limitare i danni), per poi ripartire con un’idea possibilmente diversa e si pensa migliore. E così abbiamo deciso di abbandonare il progetto e di ripartire con qualcosa di diverso.

Lei e sua moglie lavorate insieme. Fate le stesse cose oppure (in che modo?) vi suddividete i compiti?

RV  In Plastical io mi occupo degli aspetti più creativi e tecnici, mentre Barbara è il cuore amministrativo e strategico. In Tipiù facciamo per ora le stesse cose, ma presto ognuno farà il suo. È una formula che per noi funziona benissimo: ognuno ha un ruolo chiaro e definito, non ci si pesta i piedi e entrambi sappiamo cosa fa l’altro in modo da più o meno sapere sempre in che direzione stiamo andando.

Per finire, la domanda da un milione. Come il Ticino uscirà (se uscirà) dalla crisi?

RV  Le istituzioni e il mondo accademico hanno già iniziato da diversi anni a creare “sistema” e a gettare le famose “condizioni quadro”. Tuttavia, finché noi stessi come ticinesi non riusciremo a ridurre la nostra avversione al rischio, a scordarci un passato agiato e una sorta di incomprensibile esterofilia, i risultati che otterremo avranno effetti solo nel breve periodo, con tutto ciò che ne comporta. Vorrei che si smettesse di dire che “l’è sempar stai inscì, al ghe mia bisögn da cambiaa nagott”, perché è un atteggiamento che ci tiene ancorati a un trascorso ormai inesistente. È una questione di mentalità; non ne usciremo indenni e tanto presto, ma ne usciremo, perché non ci sono altre prospettive se non il rimboccarsi le maniche, tornare ad avere “fame” e ritrovare un orgoglio e un’intraprendenza che, prima ancora della piazza finanziaria, era nel nostro DNA. Le capacità e la materia prima, il cervello, li abbiamo. Le condizioni ci sono. Si tratta solo di avere un po’ più di coraggio nell’accettare che tutto sta cambiando e avere un po’ più fiducia in noi stessi per affrontare tali cambiamenti.