Questo articolo è molto ragionevole e gronda di domande, incalzanti. Il problema è che non fornisce le risposte, neppure un indizio. Natalia non me ne vorrà per questa piccola critica.

Un tizio che conosco io un giorno mi ha detto: “È stato raggiunto un accordo. Posso andare dove voglio”. Ma non so proprio se si spinga sino a Ponte Chiasso o a Cantello. Per non citare Miami Beach.

Micocci abcIl Ticino, particolarmente colpito dalle pressioni di Stati esteri pronti a tutto per garantirsi un cospicuo rientro di capitali, non dovrebbe lasciare soli gli attori della piazza finanziaria. Parliamo di moltissime persone che, per decenni, hanno operato e generato redditi importanti, per loro ma non solo. Anche il rilevante gettito fiscale di questo settore ha pagato le nostre strade, scuole, sanità, polizia e via elencando. Il Governo ticinese deve quindi dire chiaramente a Berna che il cambiamento di paradigma della piazza finanziaria svizzera non può essere fatto sulla pelle di chi ci lavora, né tantomeno il Ticino essere trattato come se la nostra situazione fosse identica a quella di Ginevra o Zurigo. Non solo la politica però, anche la FINMA, oltre sottolineare le negligenze passate di alcuni, dovrebbe dire la sua e indicare a tutti quale comportamento adottare in questa delicata fase di transizione, evitando l’attuale “fai da te” che non rassicura nessuno.

La BSI è la prima banca svizzera a raggiugere una delle cosiddette intese di “non prosecution” con il Dipartimento di giustizia USA previste dal noto “accordo” FATCA. La banca privata ticinese, e i suoi futuri nuovi azionisti brasiliani, che, ovviamente, al deal con gli Stati Uniti tenevano molto, evita così, pagando oltre 200 milioni di dollari, le procedure americane per i comportamenti scorretti nei confronti del fisco statunitense, il temuto IRS. Da un lato, il CEO di BSI, Stefano Coduri, manifesta, sul Corriere del Ticino, la sua comprensibile soddisfazione per la raggiunta intesa. Dall’altro, la FINMA rimprovera all’istituto di credito ticinese negligenze e errori nella gestione della clientela americana.

Le valutazioni dell’autorità di vigilanza sull’operato della banca durante gli anni in questione meritano ovviamente attenzione, ma non è questo il tema che qui mi preoccupa. BSI è salva, ma i suoi collaboratori? Il problema posto è molto semplice e va ben oltre questo caso concreto: come evitare che il passaggio dalla strategia dell’off-shore a quella del “denaro pulito” diventi un incubo senza fine per il personale delle banche e i vari intermediari coinvolti? Che fine faranno i dati relativi a queste persone trasmessi oggi agli USA oppure domani resi noti all’Italia nel contesto della cosiddetta voluntary disclosure o di altre procedure? Devono temere procedimenti penali o amministrativi? Se sì, la Svizzera potrà e vorrà tutelarli? Come? Oppure dovranno per i prossimi anni attraversare il confine con una malcelata preoccupazione? Chi assumerà i loro costi legali?

Queste sono domande politiche che richiedono interventi puntuali per non lasciare nell’incertezza migliaia di persone e tutto un settore frenato dal suo passato. Sarebbe il colmo che a pagare il conto, anche personalmente, fossero alla fine donne e uomini che, per anni, hanno rispettato le normative svizzere e gestito patrimoni di cui tutti sapevano che non erano, come oggi si dice tax compliant. E sulla gestione dei quali, ripeto, il fisco svizzero ha incassato, per decenni, imposte miliardarie, alla faccia di tanti facili moralismi oggi in circolazione.

Un problema che la già citata questione della voluntary disclosure italiana ha reso ancora più urgente, particolarmente per la nostra piazza finanziaria. Si vorrà infatti ammettere, spero, che i patrimoni sottratti al fisco italiano e depositati tra Chiasso e Lugano sono ben maggiori di quelli che sono stati nascosti al fisco statunitense. La vera risposta sarebbe stata, da parte svizzera, un’amnistia che segnasse uno spartiacque tra un “prima” e un “dopo”, evitando che il passato della nostra piazza finanziaria diventasse un peso destinato a durare anni e a rendere molto più difficile la preparazione di quel “dopo off-shore” per il quale pure abbiamo carte in regola.

Invece, con modifiche legislative successive e varie improvvisazioni, si è trasformato molto del patrimonio gestito in “refurtiva” senza pensare che ciò avrebbe anche avuto conseguenze dirette sugli intermediari finanziari, chiamati sia prima che ora, in questa delicata fase di transizione, a gestire questi averi. E’ il colmo che ci si preoccupi spesso del fatto che la clientela italiana sia stata, di fatto, “bloccata” dalle banche svizzere e molto meno di quanto succede o potrebbe succedere a chi, nelle nostre banche e fiduciarie, da anni lavora rispettando regole sempre nuove e spesso tutt’altro che chiare. Fino a quando?

Natalia Ferrara Micocci, avvocato, candidata PLRT al Consiglio di Stato