Storie nostre, storie di vita di persone in carne e ossa: di falso ci sono solo i nomi, per motivi facilmente intuibili.

Pubblico questo pezzo anche se, in verità, lo disapprovo. La demonizzazione sistematica dell’imprenditore (che in certi casi può anche comportarsi scorrettamente) non porta da nessuna parte. Vogliamo forse risuscitare la Germania Orientale? In quello stato non c’erano imprenditori!

Lavoro 500Francesca ha 22 anni, è diplomata, conosce tre lingue oltre la sua e vive nel “ricco” agglomerato luganese. Ha lavorato per un anno in una pizzeria oltre Gottardo. Tornata a casa, è in cerca di un lavoro che non trova. Tra le offerte dell’ultima settimana: uno “stage” che richiede l’ottima conoscenza del tedesco per svolgere un lavoro amministrativo. Compenso previsto: poco più di un’apprendista all’ultimo anno.

La madre di Francesca, Valérie, cinquantenne, lavora invece come dipendente a tempo indeterminato in un supermercato. Lei fa ancora parte dei “privilegiati”: un lavoro fisso ce l’ha. Peccato che debba lavorare di sabato e giorni festivi, modulare la richiesta di vacanza alle esigenze del datore di lavoro pur avendo 13 giorni di ferie arretrate e, di fronte alla necessità di fare una settimana a giugno, abbia ricevuto un secco no.

Anche il fratello di Francesca, Carlo, ha la fortuna di avere un rapporto di lavoro dipendente presso una multinazionale che opera nel settore delle tecnologie avanzate. Ma lavora da alcuni mesi con un specie di contratto di solidarietà, “conquistato” dai sindacati per evitare che venissero licenziati altri colleghi dalla medesima azienda. La “conquista” ha questa conseguenza: la ditta chiede a Carlo e ai suoi colleghi di lavorare come se la solidarietà non esistesse, facendo turni straordinari, festivi , naturalmente non pagati.

Max, architetto neodiplomato, dice che l’importante è lavorare, tutto il resto viene dopo. Beato lui! Cosa ne direbbe di affiancare all’occupazione ufficiale anche un po’ di volontariato che oggi fa tanto tendenza pseudo progressista?

Sophie, impiegata amministrativa, è stata buttata fuori su due piedi da una multinazionale dell’arredo perché si è permessa di prendere le difese di una collega. Licenziata con beffa: la collega quando la incontra manco la saluta.

Sergio, contabile 60enne, viene assunto con gli incentivi statali alle aziende che assumono “disoccupati difficili”, finito il periodo sussidiato il Centro fitness per cui lavorava lo ri-scarica in disoccupazione.

“Sviluppo” e “progresso” tecnologico non hanno liberato le nostre esistenze dalla alienazione del lavoro sempre più incerto, intermittente, precario o, al contrario, invasivo, intensivo e pesante. In ogni caso ricattabile: viviamo per lavorare, non il contrario.

Insicurezza e precarietà non escludono nessuno: sono scontate per chi il lavoro ancora non ce l’ha o se lo ha è temporaneo, ma sempre più presenti anche nella vita di chi un rapporto di lavoro dipendente e a tempo indeterminato ha fatto in tempo ad averlo.

In gioco c’è un modello di società che mette letteralmente nelle mani delle imprese, piccole o grandi che siano, le nostre vite. Anche quelle di chi un lavoro “fisso” ce l’ha (o meglio lo aveva).

Se la mercificazione estrema del lavoro diventa legittima, non c’è garanzia acquisita che tenga. Francesca e le altre come lei dovranno rinunciare alle ferie, saranno spinte a lavorare anche in cattive condizioni di salute, il loro orario di lavoro non terrà minimamente conto delle loro esigenze di vita e familiari. Pena la minaccia e il rischio di perdere il posto di lavoro.

Carlo sarà costretto ad accettare di lavorare fingendo di non farlo, per “solidarietà”.

La competizione tra lavoratori precari e dipendenti, giovani e adulti, qualificati e non, è un artificio ingegnoso dei governi e delle imprese: stare al loro gioco significa rassegnarci tutti a una vita peggiore, alla perdita progressiva di diritti e di tutele.

E’ un destino inevitabile? No! Sarebbe ora di cominciare seriamente a pensarlo!

Carlo Curti, Lugano