(pubblicato dal CdT come “opinione”)

jack 200Questo buon articolo, molto ben scritto e di taglio classicamente anti-leghista, è dovuto alla penna dell’on. Natalia Ferrara Micocci, indubbiamente un elemento di punta della compagine parlamentare PLR. L’articolo è, come detto, buono ma contiene almeno due cose – una discutibile e un’altra che non sta in piedi – che non bisogna lasciar passare.

La prima: sull’inasprimento “censitario”. È evidente che la proposta della saggia Amanda Rückert mirava ad evitare che masse sempre crescenti di nullatenenti bisognosi di assistenza si naturalizzassero “sulle spalle dello sfigato contribuente ticinese”, categoria alla quale appartengono Natalia, Francesco e varia altra gente (ma non certo tutti!). I buonisti (e tte pareva) hanno vinto.

La seconda: “c’è chi attacca sistematicamente l’Autorità federale”. A questo punto mi permetto di far notare all’articolista che criticare il governo – qualora esso agisca contro l’interesse del Paese, della sua indipendenza e della sua sovranità – non è soltanto un “diritto” bensì uno STRETTO E INELUDIBILE DOVERE.

Micocci (2)In Svizzera e in tutta Europa, i temi, serissimi, della nazionalità e della patria dividono le opinioni pubbliche e stanno al centro delle controversie politiche. Il Ticino, con un terzo di residenti stranieri e un rapporto storicamente complesso ed economicamente molto intenso con la vicina Italia, non poteva certo fare eccezione. Qui come altrove, in effetti, usare il territorio come una bandiera è diventato usuale.

È su questo sfondo che gli animi del Gran Consiglio si sono recentemente scaldati per l’iniziativa della deputata leghista Amanda Rückert tendente a modificare la Legge sulla cittadinanza e sull’attinenza comunale. Il Parlamento ha bocciato con una convinta maggioranza questa proposta di inasprimento «censitario» della procedura di naturalizzazione, e non sono mancate le parole forti e l’invocazione di simboli, fino a citare San Paolo («chi non vuole lavorare, neppure mangi»). Il clima era però già torrido in occasione della seduta di inizio giugno, quando la maggioranza delle deputate e dei deputati ha respinto un’altra mozione leghista, che mirava all’obbligo di esposizione permanente della bandiera svizzera nelle sedi governative ed istituzionali. I due temi, in fondo, non sono distanti, attivando entrambi quei simboli e quei riflessi che ho ricordato all’inizio, capaci quindi di far discutere per ore un Parlamento intero mentre, ad esempio, per approvare crediti suppletori milionari per la manutenzione stradale, tutto si è risolto in pochi minuti.

Personalmente ho votato contro entrambe le proposte. Ritengo che l’obbligo di esporre la bandiera sminuisca, svilisca, il senso patrio. Ogni obbligo, di per sé, rende meno sincero un gesto. A maggior ragione se si tratta di simboli identitari. Obbligare qualcuno al patriottismo non rende forse meno autentico, meno rispettoso, il gesto libero di Istituzioni e cittadini? Qualcuno si ricorda i tempi nei quali bandiere e distintivi erano, appunto, obbligatori in quasi tutta Europa? Né più leggi, né più regolamenti ci conferiranno maggiore orgoglio per la patria, né tantomeno maggiore considerazione per Berna e da Berna. Senza contare che tra i sostenitori di questo nobile gesto, di questo obbligo a fin di bene, c’è chi attacca sistematicamente l’Autorità federale. No, non credo che questo sia amor patrio, piuttosto amore dei facili consensi. Il rispetto dei nostri valori non passa solo dai simboli. I simboli sono importanti, certo, ma se esasperati posso trasformare il sentimento positivo del patriottismo in gesti impregnati da sensazionalismo. Più bandiere confederate non ci avrebbero garantito né più attaccamento alla patria né più considerazione. Anzi, se accolta, questa modifica legislativa ci avrebbe reso l’unico Cantone a dover dimostrare di voler bene alla Svizzera. È un bene che il Parlamento abbia ascoltato le raccomandazioni del Governo e della commissione della legislazione (a maggioranza), condividendo in particolare la posizione del ministro Norman Gobbi. Sì perché, proprio lui, ha definito addirittura «fuori luogo» l’introduzione di un simile obbligo, sottolineando l’importanza dell’autonomia decisionale, del rispetto del federalismo e di quella sacralità data proprio dall’eccezionalità. Eppure il suo gruppo parlamentare ha votato diversamente, e i suoi esponenti, nei giorni a seguire, hanno attaccato coloro i quali, in fondo, hanno dato ascolto al Ministro leghista.

Per il dibattito sulla procedura di naturalizzazione le cose non sono andate molto diversamente. Si è trattato, purtroppo, di un’altra prova di demagogia, più che di buon senso. Questa proposta di legge serviva solo, ancora una volta, a costruire contrapposizioni tra «veri» e «finti» difensori della cittadinanza svizzera e sono contenta che in Parlamento, nonostante la richiesta provocatoria dalle file leghiste del voto nominale, una netta maggioranza abbia bocciato l’iniziativa di Amanda Rückert senza preoccuparsi di finire in una delle solite liste pubblicate online in tempo reale e su carta la domenica mattina.

Anch’io mi sono espressa in maniera contraria. No, non perché sono naturalizzata, non perché figlia di genitori italiani immigrati in Svizzera e dediti a professioni cosiddette umili. Ho votato contro perché sono un avvocato, un ex magistrato, e credo che le leggi debbano essere varate per contenuto e non per facciata. Non c’era sostanza dietro questa iniziativa: l’integrazione economica è già un requisito per l’ottenimento della cittadinanza svizzera. Se si vogliono evitare gli abusi, ancora una volta, servono più controlli e non più leggi. In effetti, oggi chi è al beneficio di un permesso C riceve già le stesse identiche prestazioni di un cittadino svizzero. È lì che dobbiamo intervenire, anzi, è lì che il Governo deve intervenire. Intanto, non credo che la maggioranza abbia sempre ragione, ma nemmeno penso che il rifiuto di due atti parlamentari leghisti, nelle ultime due sedute, sia dovuto al caso. Erano entrambi inopportuni o inapplicabili. Non scomodo San Paolo, prendo in prestito un detto popolare, che così ben si presta alla stagione: tra il dire e il fare, c’è di mezzo il mare.

Natalia Ferrara Micocci