Lettera aperta al Direttore del DECS
Onorevole Signor consigliere di Stato,
come ho scritto sabato, intendo replicare all’alquanto esorbitante reazione nei miei confronti che mi ha inviato sabato 17 ottobre (vedi sotto sulla mia bacheca Facebook). È mia intenzione essere oggettivo al massimo.
La materia del contendere
All’inizio del mio scritto iniziale (che pure è mantenuto sulla mia bacheca) ho ripreso due princìpi sui quali si fonda il nuovo piano di studio per la scuola dell’obbligo:
1) “Non si tratta più, come nel passato, di un programma d’insegnamento che elencava quali temi e argomenti andavano trattati nei rispettivi settori formativi”;
2) “Per competenze si intendono le capacità di un allievo di saper affrontare situazioni conosciute o nuove mobilitando un insieme coordinato di saperi e di capacità/abilità con una disponibilità a coinvolgersi cognitivamente ed emotivamente”.
Non dubito che questi due capisaldi sono destinati a reggere tutto l’impianto del piano di studio.
Le censure affrettate di Manuele Bertoli
Il consigliere di Stato mi obietta che a partire dal secondo principio io non possa trarre la conclusione che debba “essere il solo allievo ad attivarsi senza che il docente non faccia o possa far nulla”. Gli voglio far capire che se la scuola fosse solo un insieme di affermazioni teoriche, gli potrei anche dare ragione. Ma tale la scuola non è. Anzi egli mi esplicita che il piano di studio, pur definendo i traguardi indicati agli allievi, “non muta il lavoro del docente”. Mi permetta di dubitarne. Infatti il Piano, come lui stesso conferma, se definisce gli obiettivi, “non contiene (…) tutte le indicazioni didattiche su come, con quali strumenti, con quali forme e materiali d’insegnamento poterli raggiungere”. In perfetto ossequio, direi ma forse sbaglio, al punto 1 indicato sopra.
… Alle quali non ho difficoltà a rispondere
Ora intendiamoci: se io invece dicessi che stando così le cose il lavoro del docente sarebbe terremotato, non è certo perché io trovi sbagliato il principio 2 che definisce le competenze. Ci mancherebbe! Se un allievo sa affrontare le situazioni mobilitando “un insieme coordinato di saperi e capacità/abilità” sono io il primo a rallegrarmene. Ancor più se affrontando tali situazioni è in grado di coinvolgersi “cognitivamente ed emotivamente”, con indubbio profitto. È il cammino per giungere a questo “aboutissement” che mi preoccupa.
Bertoli mi dice che il lavoro per produrre strumenti, forme e materiali si protrarrà per alcuni anni. Vorrei sapere su quali indagini conoscitive, su quali necessità osservabili, con quali modalità. Vengono posti in essere gli strumenti immediatamente disponibili? Sapere come si può svolgere una lezione al giorno d’oggi? Indubbiamente ci saranno anche docenti geniali, ma non è azzardato dire che in molti casi la procedura diffusa potrebbe essere così descritta:
1) il docente consegna a ciascuno un foglio e dice di leggerlo, segnando con pennarello verde le cose capite e con pennarello rosso quelle non capite;
2) allo scadere di un congruo lasso di tempo il docente si rivolge alla classe per un bilancio. Naturalmente gli allievi gli porranno domande. Alcune potranno essere sulla conoscenza dei vocaboli, altre sul senso del testo, altre ancora su ogni cosa potrà venire in mente ai ragazzi. Potrà essere anche una cosa seria, ma perlomeno si dovrà fare i conti con argomenti slegati. Tanti anni fa un mio compagno di studi fu mandato in una scuola per una breve supplenza. Naturalmente ebbe qualche difficoltà. “Parliamo della Kawasaki”, gli chiesero gli allievi. Ed erano già tempi in cui nelle lezioni di pedagogia si parlava di autogoverno degli allievi, di scuola nuova, di tante prospettive belle e financo bellissime.
La necessità di un serissimo esame
Ecco, onorevole Bertoli, giungo al punto. Nel mio primo scritto ho anche espresso il parere che la materia dei piani di studio “debba essere sottoposta a un serissimo esame”. Vorrei illustrare in breve questa necessità. Tutti noi dovremmo almeno riconoscere che quanto si fa a scuola ha quasi sempre un impatto e delle conseguenze sulla vita successiva. E che probabilmente le opportunità di lavoro saranno fra le prime conseguenze.
Consideri soprattutto questo dato di fatto. Supponiamo che un ragazzo non abbia avuto durante il suo iter scolastico un insegnamento specifico su temi e argomenti basilari o non vi sia stata chiarezza e concatenazione fra nozioni apprese ed esperienze. Nella vita incontrerà peraltro qualcuno che invece questi insegnamenti li ha avuti. La società può dormire tranquilla di fronte a queste disparità?
Il Lehrplan 21 e il PER sono ancora su basi tutto sommato tradizionali. Non hanno abolito gli insegnamenti puntuali, anche se spingono (giustamente) verso l’acquisizione di competenze. Noi invece… Non abbiamo proprio varcato il Rubicone ma al massimo qualche ruscelletto che scende dal massiccio del Gottardo. Molto ci sarebbe da esaminare. Se lei volesse porre domande io risponderò.
Per concludere, il rispetto non è solo non alzare la voce
Per oggi le posso unicamente testimoniare, per non disprezzabile esperienza, che la scuola può sicuramente insegnare il rispetto, può chiedere rispetto per i docenti e per il loro difficile lavoro, può accordare libertà di dire quello che si vuole, ma gli allievi il rispetto saranno contenti di riconoscerlo soprattutto a chi avrà saputo indirizzarli meglio sulla strada della vita, se necessario alzando la voce e non con l’indifferenza assai politicamente corretta di cui si dà prova in troppi ambienti. Spero proprio che la scuola non metta cerotti sulla bocca di chiunque; molte volte è purtroppo chi non ha il coraggio di parlare che se li mette da solo. Rilegga attentamente quella mia frase e la colleghi con la precedente. Comprenderà che il dramma della scuola ticinese sta proprio qui, e se continua così non vi è rimedio.
Con l’espressione del mio ossequio al consigliere di Stato.
Franco Cavallero