CanessoÈ sempre bello ritrovarsi alla Canesso, a dieci metri dal Municipio di Lugano, per una performance di letture (Massimiliano Zampetti) e musica (due violoncelli, Claude Hauri e Milo Ferrazzini-Hauri), cordialmente accolti dal titolare Maurizio Canesso e dalla direttrice Chiara Naldi.

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DIVAGAZIONI INTORNO AI DIPINTI E ALLE LETTURE

in occasione delle serate durante la mostra
“Petrini ritrovati”
11 e 12 Maggio, 8 e 9 Giugno 2016

a cura di
Renato Martinoni
Professore di Letteratura italiana all’Università di San Gallo

Giuseppe Antonio Petrini nasce a Carona, sopra Lugano, nel 1677 e si spegne nel villaggio natale nel 1759. Appartiene dunque all’epoca della grande fioritura erudita che ha la sua auctoritas più prestigiosa, in Italia, nel modenese Lodovico Antonio Muratori; e a quella dell’Arcadia, specie nelle sue ramificazioni padane, intesa pertanto non come semplice divagazione poetica, ma come volontà di riallacciarsi al passato in funzione degli impegni culturali del presente. E muore, il pittore, quando oramai il neoumanesimo razionalista sta facendo maturare in fretta i frutti più belli e saporiti del Settecento «riformatore»: quelli che a Milano, per restare molto vicini alla sua patria, meno di un pugno di anni più tardi, manderanno sotto i torchi un giornale illuminista, il «Caffè», che farà molto discutere, dando fondamentali impulsi ai moti riformistici, e un libretto, tanto esile quanto grande, Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria, destinato a cambiare la visione del diritto in Europa.

La Lugano in cui cresce il pittore è una cittadina assai diversa da quella che il turismo ottocentesco, con i suoi grandi alberghi, e soprattutto gli sviluppi novecenteschi, trasformeranno radicalmente. Attività, commerci e vita sociale si focalizzano attorno alla riva del lago, sotto i portici delle vie un poco anguste e pittoresche, nei giardini esperidi ricchi di vegetazione mediterranea, negli austeri palazzi abitati da una nobiltà, locale certo, ma che ama vestire, come racconta un viaggiatore bernese ai primi del secolo, attenta dunque alla novità delle mode, «alla francese». La quotidianità si dipana però anche sulle piazze, dove i cittadini amano passeggiare e dove, i più arditi, giocano al pallone. Nel buio umido e caldo delle sere d’estate si odono, sul lago e lungo le sue rive, canti e voci allegre di brigate in festa. Numerosi sono i forestieri che già dal primo Settecento, da quando Petrini è solo un giovane apprendista di bottega, scendendo dal passo del San Gottardo o arrivando dall’Italia, passano per la città. Molti di loro pernottano all’Albergo Svizzero e, accogliendo l’invito dell’oste Agostino Taglioretti, prima di accordarsi con i pescatori o di noleggiare le cavalcature per proseguire il loro viaggio, si imbarcano per andare a scoprire le fresche cantine di Caprino, o si fanno portare fino a Gandria, per ammirare le agavi e gli ulivi, oppure salgono sul San Salvatore per godersi dall’alto un panorama che dalle imbiancate sommità alpine si estende sulle verdi e rigogliose pianure della Lombardia. Qualcuno non manca di andare a vedere gli affreschi del Luini. Scrive nel 1706 Daniel Engel: «Nel capoluogo vive una borghesia cospicua e raffinata, e molta nobiltà». Il patrizio bernese è uno dei dodici «sindacatori» (cioè ambasciatori) che ogni anno, da molti decenni, fra agosto e settembre, scendono nei baliaggi italiani, prima a Lugano e poi a Locarno, per controllare l’amministrazione dei Cantoni della Svizzera. E ogni volta la missione politica diventa anche occasione per brevi gite di piacere, lunghe escursioni incuriosite (fino a Milano o alle isole Borromee), incontri mondani e culturali. Chissà che non sia proprio questa la strada che, passando per Berna e quindi per il «Pays de Vaud» che è un suo baliaggio, ha portato i quadri di Petrini ora messi in mostra, accanto forse ad altre committenze, in un lontano castello della Romandia…

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Vero è che Lugano non è, dal punto di vista culturale, un luogo all’altezza della fervida capitale della Lombardia e di altre città dell’Italia padana. Anzi, a detta di qualcuno, il baliaggio «oltremontano» degli Svizzeri non brilla certo per il livello della propria cultura («Di scuole, società di lettura, istituzioni per i poveri, o simili enti di assistenza a favore dell’umanità, nemmeno parlarne», dice un testimone forestiero: «anche per le arti si fa assai poco; così pure per le scienze». Ma ogni medaglia ha il suo bel rovescio e a ben guardare le felici eccezioni certo non mancano. Alcuni palazzi ospitano dei teatri privati; alla fine del Settecento il drammaturgo spagnolo Leandro Fernández de Moratín assiste per strada a uno spettacolo dei Comici dell’Arte: c’è Arlecchino, c’è Pantalone, c’è Colombina; e qualche anno più tardi viene messa in scena la storia «giacobina» dell’eroe svizzero per eccellenza, Guglielmo Tell. E intanto, in una libreria, un viaggiatore sfoglia i grossi volumi dell’Encyclopédie. Occorre inoltre almeno ricordare la stamperia degli Agnelli, attiva sì «in partibus infidelium», ma libera dai tentacoli infidi della censura, disposta pertanto a pubblicare opere di prim’ordine, al servizio dell’Italia e dell’Europa; e il magistero dei padri Somaschi che, nel collegio luganese di Sant’Antonio, educano i figli delle famiglie ricche del luogo, oltre che i rampolli della società benestante dell’Italia del nord. Ospiteranno verso la fine del secolo, allievo di Francesco Soave, uno dei padri della moderna pedagogia, il giovane Alessandro Manzoni. Somaschi sono anche i nobili Gian Battista e Gian Pietro Riva. Amico fraterno di Petrini, Gian Pietro studia con passione, viaggia molto, intesse contatti intellettuali, insegna a Pavia, a Venezia e a Bologna. Farà poi carriera all’interno del suo ordine. Mentre soggiorna in patria, dove si ritira di tanto in tanto per riposarsi degli strapazzi, traduce in italiano opere teatrali di Racine e di Molière (nel carnevale del 1735 vengono rappresentate a Lugano l’Ifigenia raciniana e i molieriani l’Avaro e il Matrimonio per forza e riceve l’invito dall’editore bolognese Lelio della Volpe a collaborare alla trasposizione poetica delle esilaranti avventure di Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno. È troppo ardito pensare che il padre Riva, in Arcadia Rosmano Lapiteio, possa avere letto, in compagnia del pittore di Carona, davanti al camino, nel collegio di Sant’Antonio di cui è rettore dal 1732 al 1748, o, chissà, bevendo in fresco all’ombra di un tiglio, i propri versi che descrivono lo scaltro contadino andato alla corte del re Alboino: «Un orco egli sembrava, una befana. | Rossi avea gli occhi e loschi, a sghembo andava; | Gobbo, scrignuto e di statura nana», che, nella loro teatrale comicità, tanto agevolmente fanno pensare al grottesco caro ai Carracci e all’Accademia milanese-bleniese dei Rabisch?

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Vien voglia a questo punto, nell’osservare le opere di Petrini esposte alla Galleria Canesso di Lugano, di suggerire un percorso, ideale fin che si vuole ma non del tutto astruso. Un itinerario simbolicamente «dinamico», che prende avvio dalle tre figure austere e pensose: il filosofo baldanzoso (o forse il politico, con quel dito indice che, più che sollevare dubbi, imperativamente indica la strada? o una meta?), lo scienziato incuriosito che con il compasso misura l’ampiezza e la profondità di un universo sempre meno misterioso, e l’inquieta figura femminile (una Lucrezia?, ben diversa comunque dalle allusività seicentesche, pur con quel curioso contrasto fra il nastrino ingioiellato che le adorna i capelli e lo stiletto foriero di cattivi pensieri) afflitta, chissà?, da rimorsi o dolori che, più che esistenziali, sembrano tutti di natura terrena. Un percorso che passa, per un processo di elevazione, per i due angeli cicciosi, anch’essi ancora un poco seicenteschi, che guardano verso il basso, sollevando un piatto o uno scudo pesante e sbalzato, lottando con vigore contro la forza di gravità per guadagnarsi l’ideale leggerezza dell’aere. Quasi come a suggerire due piani: quello, terrestre, di un mondo, quello settecentesco, che sta allontanandosi a grandi falcate dai fardelli delle visioni (e dalle ingabbiature) teologiche, dai pensieri della morte, dalle allusività, e il contrappunto di quello etereo, celestiale, luminosissimo, quasi già si vorrebbe dire: illuminato, ancora più settecentesco in succum et sanguinem, delle due figure che volteggiano leggere, come è leggero in realtà il Settecento, con la sua sete di libertà, il suo desiderio di avventura intellettuale e la sua voglia libertina di conoscere, nell’azzurro del cielo. Più enigmatico l’uomo, forse un santo, con un ramo di palma nella mano, esibito come un simbolico trofeo di pace ma anche come ammonimento. Leggera e danzante, ecco il punto più lontano dalla materia, la donna con il suo «dilicato viso» da ninfa, o dea, o santa, che ricorda da vicino, oltre a due versi di Gian Pietro Riva («e rifiorire le rose | in sulle guancie in pria pallide e smorte», la Fille che, con il «corallino labbro», bacia un fiore prima di lasciare il giardino, mentre il profumo dell’atto d’amore sale verso l’Olimpo «qual nube | D’arabo incenso» dell’idillio gessneriano tradotto dal luganese Francesco Soave. Non può mancare, fra le letture proposte, come ideale accompagnamento all’arte petriniana e alla musica, lasciati gli orti dell’Arcadia, lo sguardo sulla Milano preilluministica di Parini, il suo poeta più importante, colui che più di ogni altro satireggia gli ozi e i vizi della nobiltà decaduta, ma che sa calarsi giovanilmente nel divertissement degli scherzi per ventaglio o che, per l’accademia Milanese dei Trasformati, ancora vivente Petrini, affronta temi nuovi (non per l’argomento in sé, ma per il modo di trattarlo) come le comete. Ripano Eupilino invita, sulla scia dell’astronomo petriniano, a non a temere gli effetti negativi degli astri, sono tutte fole della superstizione, ma i vizi dell’uomo («L’odio il mentir l’avidità temete | E il folle amor che gli uman petti invisca» E, prima di cimentarsi con le sue prove più ardue e più alte, nel 1763, morto il pittore da quattro anni, uscirà la prima parte del Giorno, il Mattino, due anni dopo il Mezzogiorno, non rinuncia alle divagazioni leggere e scanzonate certo non ignote ai salotti luganesi frequentati da Giuseppe Petrini, né ai ventagli che servono a dare refrigerio alle dame che di tanto in tanto ospitano il pittore nei loro salotti: «Il tuo bene, il tuo bel foco | fa all’amore in altro loco. | E tu intanto che farai, | per passar questo momento? | Fatti vento»