Il presidente della Associazione Amici di Milano, Achille Colombo Clerici, ricorda la figura di Giorgio Albertazzi, il grande attore classico scomparso oggi.

achille_colombo_clerici«L’ ho incontrato qualche mese fa all’Hotel de Milan, dove aleggia lo spirito di Giuseppe Verdi. Era ancora il vecchio leone di sempre. Di quando teneva le sue recite nella nostra citta’, negli anni ’60,’70, ’80,’90 del Novecento, di quando a Genova, recitando Edoardo Sanguineti, proruppe di getto esclamando alla presenza del poeta ‘guarda cosa sei riuscito a scrivere’. Era l’ ammirazione resa ad un poeta da un amante della poesia. Aveva l’aspetto socratico degli antichi personaggi che interpretava sulla scena. Milano l’ha sempre avuto nel cuore ed era un amore pienamente ricambiato.»

Gli Amici di Milano lo ricordano con uno scritto di Antonio Armano.

Albertazzi 1« “Recitavo Puccini a Castellammare di Stabia. Una scena di gelosia. Mi lancio verso la ragazza e inciampo fra i tendaggi. Giù, a faccia avanti. Che botta! Fermo un quarto d’ ora. Il sangue, lo stordimento, il dolore. Il medico voleva che facessi immediatamente la tac. Decido di riprendere. Poi l’ovazione e il teatro che sembrava dovesse crollare”.

Ormai novantenne Giorgio Albertazzi ricordava quella volta che ha rischiato quasi di morire in scena. Non gli sarebbe dispiaciuto ma con ironia ricordava Molière che se n’era andato poco dopo avere recitato Il malato immaginario. Eppure il pubblico non l’aveva considerata la sua migliore interpretazione, ironizzava Albertazzi.

Se Vittorio Gassman ha conosciuto periodi di depressione e malinconie nichiliste, Albertazzi ha attraversato tutta la seconda metà del ‘900 come un leone. Non era di quegli attori che sentono la crisi del decadimento fisico perché non possono più recitare Amleto e devono fare Re Lear. L’interpretazione che ha caratterizzato l’ultima parte della sua vita e della carriera è stata Memorie di Adriano, dal libro di Marguerite Yourcenair. Un ruolo che si può fare solo alla fine del percorso attoriale, quando, per dirla con John Donne, il tempo ha reso neve i capelli. In migliaia di repliche, Albertazzi ha portato sul palcoscenico l’imperatore che guarda dietro di sé gli anni trascorsi, a partire dalla première di Villa Adriana, a Tivoli, nell’89.

Come Adriano raccontava la bellezza del giovane Antinoo proprio nel momento culminante in cui lo splendore diventava decadenza, così Albertazzi era affascinato dalla caducità della vita, dal carattere effimero dell’esistenza. Citava spesso un racconto dello scrittore argentino Borges, L’immortale, il cui protagonista si disperava perché l’eternità gli aveva tolto il gusto della vita: “Gli dèi ci invidiano perché siamo mortali”. Tra gli autori che amava c’era Proust, soprattutto per il sentimento del tempo.

Nato nel 1923 a Fiesole, veniva da una famiglia di modeste condizioni economiche. Era orgoglioso della strada fatta anche se muovendo i primi passi sul palcoscenico diceva – non senza ironia beffarda – di essere figlio di un aviatore e che la madre era nata a Londra. In realtà il padre faceva il deviatore non l’aviatore, lavorava ai binari delle ferrovie, e la madre era nata in un paesino che si chiama Londa, in provincia di Firenze, non a Londra.

Per spirito fiumano e dannunziano, più che per convinzione politica, si era arruolato nella Repubblica di Salò, come tenente nella legione Tagliamento, un periodo che non rinnegava e durante il quale era stato in buona compagnia. Anche Dario Fo, che è sempre stato agli antipodi di Albertazzi, aveva indossato la camicia nera. Tra le sue ultime interpretazioni una pièce su D’Annunzio: “Io ho quel che ho donato”.

Aveva debuttato con un Troilo e Clessidra di Shakespeare, per la regia di Luchino Visconti, nel ’49, al Maggio musicale fiorentino, avvalendosi del magnetismo che ne caratterizzava gli occhi e il volto. Era meno fisico, meno mattatore e atletico di Gassman, ma aveva un magnetismo forse superiore. Le strade dei due, la Callas e la Tebaldi del teatro italiano del dopoguerra, si erano divise quando Gassman aveva lasciato il teatro per il cinema. Tra i trionfi di cui andava più fiero c’era un Amleto all’Old Vic di Londra, per la regia di Franco Zeffirelli, in occasione del 400esimo anniversario della nascita di Shakespeare, nel ‘64.

Albertazzi 2Con l’amatissima Anna Proclemer

Pur avendo interpretato le poesie di Karol Wojtyla – Le meditazioni del trittico romano – per un editore polacco, Albertazzi non aveva la fede e considerava la morte come una soglia da varcare a occhi aperti e oltre la quali probabilmente c’è il nulla: “Un nulla che è il solo assoluto che abbiamo”. Grande seduttore, in senso lato e in senso letterale, Albertazzi concedeva di avere ipotizzato l’esistenza di Dio ammirando la bellezza femminile. Tutto ha origine da una battuta di Eduardo de Filippo su Anna Proclemer, forse il più grande amore di Albertazzi: “Chilla tiene ‘e belle cosce”. Le cosce delle donne erano per Albertazzi una tentazione di fede. Una donna era anche all’origine della decisione di diventare attore. Del tutto causale. Si trovava su un autobus ai tempi del liceo quando una ragazza più grande di lui – frequentava l’università – lo ha invitato a recitare.

Sposato con Pia de’ Tolomei, nome toscano che richiama il personaggio dantesco della moglie uccisa dal marito per convolare in seconde nozze (“Siena mi fé, disfecemi Maremma”), Albertazzi non ha avuto figli. E’ l’ultimo grande figura di un teatro classico che se ne va con lui senza lasciare eredi. Anche se diceva di averci messo una vita a disimparare a recitare – si riferiva alla vecchia maniera -, è sempre rimasto un interprete classico.

Era diventato molto famoso al grande pubblico con gli sceneggiati Rai dei grandi classici. Aveva debuttato sul piccolo schermo con Delitto e castigo e poi aveva lasciato il segno soprattutto con L’idiota di Dostoevskij e Lo strano caso del Dottor Jeckyll e Mr Hyde di Stevenson. Del personaggio doestoevskiano, il principe Myškin, ricordava sempre la celebre frase: “La bellezza salverà il mondo”. Albertazzi stesso era molto devoto alla bellezza. In particolare a quella
femminile.

Nel corso di un incontro dedicato alla poesia, presso i saloni della Borsa di Genova, nel 2004, ha recitato La ballata delle donne, di Edoardo Sanguineti, presente insieme a Mario Luzi, Adonis e alla traduttrice Fernanda Pivano.

La ballata si conclude così: “Perché la donna non è cielo, è terra/carne di terra che non vuole guerra:/ è questa terra, che io fui seminato,/ vita ho vissuto che dentro ho piantato,/ qui cerco il caldo che il cuore ci sente,/ la lunga notte che divento niente”.