Sul finire d’un giorno d’estate, sedeva sulle pendici delle dolci colline emiliane, un uomo anziano che quelle stesse alture, tinte di smeraldo cupo per l’estremo riflesso del sole morente, era intento a rimirare. E, come quel tramonto vermiglio e fiammeggiante d’oro segnava la fine del corso del sole, così quell’uomo, muto spettatore della bellezza della sua terra natia, si mostrava come un superbo superstite d’una perigliosa esistenza, giunto al fine del suo gran corso.
Com’anche l’estate volgeva ormai al termine, così anch’egli s’approssimava all’estrema sua soglia. E quella soglia avrebbe varcato, con dignitosa mestizia, così come il sole si getta senza indugio nelle tenebre, scomparendo dietro gli alti e lontani Appennini color indaco.

Mentre osservava le sue montagne, che sempre gli sarebbero appartenute, e ricordava gli anni passati, tingevasi sul suo vegliardo volto la dignità di chi, costretto, avrebbe dato la vita per la Patria, ma che al contempo aveva combattuto per aver salva la vita e rivedere coloro che veramente amava.

Per la vita aveva lottato, non per la Patria.
Nella pace aveva sperato, non nella vittoria.

Tra le nodose mani di chi, anche dopo la guerra aveva ripreso a lavorare con vigore, teneva delicatamente una piuma, una penna nera.

Perché l’uomo era un alpino. Strappato adolescente alle sue valli, obbligato da un lontano ed assente governo e costretto da uno sconosciuto e arcigno comandante a imbracciare un fucile e a sparare, aveva precocemente abbandonato i sogni giovanili per sottostare alle decisioni che pochi signorotti ben vestiti avevano sottoscritto sedendo a un bel tavolo di noce intagliato. E si era ritrovato diciassettenne in trincea, a condividere quel destino di morte e violenza, con compagni che come lui avevano dovuto lasciare per sempre gli affetti d’un tempo ormai lontano.

In quella sera di fine estate l’alpino pensava a quei giorni d’inverno nei quali, stando rannicchiato in anguste e fangose trincee, mentre le gocce di pioggia inzuppavano le divise ed il vento gelido, spietato, penetrava fin nelle ossa, anche un solo sorriso amico poteva essere confortante come un fuoco che arde su un legno ben secco e scoppietta con vigore illuminando, di notte, una casa. Ma poi subentrava, realistico e spiazzante, il pensiero che quel sorriso potesse esser l’ultimo e che quel volto, che per conforto l’aveva emanato, l’indomani avrebbe potuto trovarsi riverso, fissando un cielo grigio con lo sguardo ormai vitreo. Allora l’alpino scriveva, tremante per il freddo, per la paura di non farcela, ma anche per la speranza di potercela fare (e la speranza vibrava a tratti in cuor suo.) e con l’accurata e sinuosa scrittura dell’innamorato, tracciava sul foglio umido il nome dell’amata, ed iniziava a raccontarle della vita in trincea, dell’episodio in cui gettandosi sul corpo del comandante ferito era riuscito a spostarlo salvandolo dall’esplosione di una granata, infinite volte le scriveva che l’amava e la rassicurava che presto o tardi sarebbe tornato ed insieme avrebbero potuto cominciare una nuova vita, serena.

Amaramente l’alpino pensò in quel momento come illusorio fosse stato il sogno di poter finalmente sorridere, poiché dopo la Prima Grande Guerra, ne era subentrata un’altra, non per il crudele disegno del fato ma per l’irresponsabile sete di potere e vendetta dei capi. Eppure, con forza, sempre aveva combattuto, non più con le armi ma con la tenacia di chi sempre spera e sopporta.

Talvolta un disegno ignoto relega gli uomini d’onore a un ingiusto destino, l’alpino lo sapeva bene.

Pensò all’amata, in seguito sua sposa, che con angoscia l’aveva atteso e con gioia riabbracciato, ai figli ch’ella gli aveva donato e che tante soddisfazioni gli avevano regalato, prima che la seconda guerra falciasse le loro giovani vite.

Pensò ai compagni che al suo fianco avevano combattuto sul Carso, sul Piave, tra rocce scoscese e lastre di ghiaccio, e con lui avevano vegliato nelle lunghe notti scure in cui l’australe soffiava, con vigoroso gelo, facendo vorticare nel nero cielo i fiocchi errabondi della prima neve.

L’alpino, fino ad allora in piedi a fissare, immobile, il sole calare e sparire in quel crepuscolo infinito di tenue bellezza immensa, sentì il bisogno di sedersi e concedere riposo alle sue stanche membra.

Ammirò il cielo, così bello e di sicuro estraneo alla terra, così opaca. Si convinse ch’esso dovesse essere soltanto un riflesso, emanazione dei mondi sereni che compongono quell’Eterno Altrove che agli uomini non è dato conoscere. E d’improvviso seppe che là stavano i suoi cari, regnando in quell’eterna luce. Accarezzò la penna nera che stringeva fra le dita e guardò ancora il meriggio che andava scurendosi e quel cielo cremisi, or divenuto un vortice di pallidi riflessi di rosa e d’azzurro, intrisi di pagliuzze porporine, gli parve esser non più un tramonto ma un’alba. No, si disse l’alpino, quella era non era la fine, ma soltanto l’inizio d’una nuova vita.

Ripensò ai cari che l’avevano preceduto e, sospirando, sorrise.
Presto i loro volti amati non sarebbero più stati lontani.

Chantal Fantuzzi