“Non se ne uscirà mai dal litigio se deve prevalere l’analisi della realtà così come fotografata dagli studiosi oppure deve prevalere la percezione diffusa di questa realtà…”

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Imponente articolo di Sergio Morisoli (troppo lungo per un portale del web, a mio giudizio). Nel mio bonario cinismo io dico: “Per fortuna c’è Rico Maggi che, regolarmente, si mette da solo nei guai”. È un uomo di carattere, è come se dicesse: se mi attaccate, se mi massacrate, me ne frego!

Per i portali è una pacchia. Intendiamoci: Ruggero d’Alessandro è una pacchia più grande.

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Morisoli 1Bastonare Rico Maggi e la sua razionalità o banalizzare le reazione istintive di chi lo attacca, non crea nessun posto di lavoro in più. Il mercato del lavoro ticinese è ben più complesso di ciò che le statistiche (statiche) della SECO possono indicare, e ben più emotivo rispetto agli studi che l’IRE può produrre. La ragione è semplice, si tratta di un mercato in cui la merce di scambio sono gli uomini e le donne, e siccome gli uomini e le donne non sono merci inorganiche che si spostano e si comprano, ma agiscono sì razionalmente ma anche emotivamente non se ne uscirà mai dal litigio se deve prevalere l’analisi della realtà così come fotografata dagli studiosi oppure deve prevalere la percezione diffusa di questa realtà. L’analisi di questo mercato sfugge al classico approccio lineare di scoprire le cause per poi misurare gli effetti per trarre conclusioni; gli effetti possono benissimo essere cause e le cause diventare effetti. Siccome il lavoro non è solo salario, funzione, cahier de charge, ma è pure realizzazione di sé stessi, orgoglio, sfida personale e collettiva, e premessa per sviluppare altro nella vita; sbaglia chi lo vuole ridurre al semplice incontro di Domanda e Offerta e misurarlo con franchi, metri, litri e chili, il lavoro va oltre. Provo a dimostrarvi quante cose non scientifiche si possono osservare e dire sul mercato del lavoro ticinese, ma che pur non essendo scientifiche e forse nemmeno misurabili contano, contano eccome. Faccio apposta qui di seguito ad elencare argomenti per corrodere il costume e l’abitudine a ragionare nella categoria che conta solo ciò che si può misurare e che quindi non esiste e non merita indagine quello che non è nelle statistiche. I disoccupati sono molto di più di quelli recensiti nelle statistiche, che sono corrette ma parziali. I disoccupati con meno di 30 anni (moltissimi) sono preoccupanti per il futuro generazionale, e quelli sopra i 50 anni un fallimento del sistema assicurativo disoccupazionale attuale. Il reinserimento nel mercato del lavoro è un flop. Per la prima volta dagli anni ’60, dopo una lunga crescita ticinese, la generazione di chi entra nel mercato del lavoro non sa quanto potrà starci; chi sta studiando non capisce bene perché deve impegnarsi non vedendo orizzonti con un minimo di punti fissi. O non essendo stato educato a intravvederli. Metter su famiglia e fare figli poi è un atto eroico…La percezione del tempo e del futuro lavorativo, da parte dei giovani è stravolta. Noi sapevamo che bastava impegnarsi e che avremmo trovato un posto, che avremmo avuto un salario in costante aumento negli anni, e che se il lavoro non ci piaceva più avremmo potuto facilmente cambiarlo; capivamo senza studi e statistiche che l’economia cresceva e offriva molte opportunità, il merito corrispondeva all’impegno e viceversa. I miei figli, come molti altri giovani, oggettivamente non hanno questo orizzonte e sostituirlo con qualcosa di altrettanto attrattivo non è uno scherzo. Come non spegnere il desiderio dei giovani e non subire il disfattismo degli adulti? Questo è il problema numero uno che produce un mercato del lavoro saccheggiato. Un mercato, qualsiasi mercato, necessità di alcune condizioni assolute e non sindacabili per funzionare: la fiducia tra gli attori, il rispetto dei valori reciprochi, una concorrenza leale, regole del gioco imparziali e chiare, il controllo e le sanzioni in caso di non rispetto delle regole, condizioni di accesso eque e non discriminatorie, il rispetto delle condizioni locali. Il mercato del lavoro ticinese è saccheggiato perché queste condizioni non sussistono più totalmente o parzialmente. Tra i disoccupati ci sono certamente dei lazzaroni, il sistema generoso gli permette di esserlo, hanno capito perfettamente che il non lavorare dal punto di vista materiale e utilitaristico, in un orizzonte vuoto, non è molto diverso dal lavorare. E che il tirare avanti di giorno in giorno è cultura e non più deviazione. Questa categoria lasciamola stare. Gli altri potrebbero lavorare ma non hanno (più) o non le hanno mai avute le giuste caratteristiche. Gli altri ancora hanno tutto il necessario ma sono sostituiti da chi costa meno. Sono 3 categorie grezze, ma ci devono obbligare a trattare il fenomeno disoccupazione in modo diverso anziché come una massa uniforme di cercatori di impiego. Se poi li suddividiamo per settore economico si scoprono magari vie di soluzione interessanti. La disoccupazione non è un fenomeno di massa, ma un fenomeno personale e individuale dove solo la singola persona messa in condizione di lavorare conta, non le statistiche e le sue variazioni mensili e stagionali. Tra i datori di lavoro c’è chi, ed è la maggioranza, che è serio, fa fatica, investe e acquista in Ticino, rinuncia agli utili per reinvestirli in azienda, fa sacrifici per non licenziare e fa di tutto per assumere domiciliati ticinesi. Poi ci sono i loro concorrenti locali che fanno esattamente il contrario. E poi ci sono quelli, senza radici e legami locali, che hanno capito che sfruttare la frontiera come differenziale per approvvigionarsi in sottoforniture e lavoratori italiani è di gran lunga la mossa competitiva più interessante. Più interessante e meno costosa che investire in innovazione, in formazione, in marketing, in ottimizzazione. Poi ci sono quelli che essere in Ticino o altrove fa lo stesso, devono rispondere con i numeri a CFO (contabili) anonimi piazzati a migliaia di km da qui, e che magari non sanno la differenza tra Svizzera e Svezia. Sono, queste, le categorie di lavoratori, di disoccupati e di datori di lavoro tutte presenti sul nostro territorio quindi sono fatti concreti e reali. I fatti o si affrontano o si negano, oggi invece sembra che se la realtà non corrisponde al modello ideologico del momento allora non è il modello a dover essere rivisto, ma è la realtà che deve essere manipolata. Se aggiungiamo che i posti pubblici e parapubblici federali, cantonali e comunali sono crollati a picco negli ultimi decenni, e con essi l’era in cui i partiti facevano gli uffici di collocamento, il quadro della sproporzione tra aspettative e non risposte è completo. Oltre a ciò ci sta il fatto che pure gli enti pubblici si atteggiano più a globalisti che a localisti, la vecchia buona via di fuga del posto sicuro e ben pagato si riduce e soprattutto mette chi ne occupa uno in un ottica di privilegiato nei confronti delle decine di migliaia di lavoratori e le migliaia di disoccupati che devono vivere sul mercato del lavoro saccheggiato. E poi ci sono quelli che pur avendo un lavoro non si sentono molto meglio di chi l’ha perso o non lo trova. Se una ditta offre un salario a un lavoratore straniero di 2 o 3 fino a 4 volte inferiore a quanto sarebbe necessario dare a chi è domiciliato e vive in Ticino per permettergli di vivere senza chiedere l’integrazione di disoccupazione o di assistenza; allora sta lucrando sulla pelle dei lavoratori sia indigeni che stranieri, oppure è talmente fallimentare e fuori mercato che nemmeno in Cina ce la farebbe. Non è libero mercato: è sfruttamento. Ammettiamolo. Nessun muro e nessuna ramina contro i lavoratori stranieri possono proteggerci da questa malvagità. Ci vuole ben altro! Ammettiamo finalmente che su quel che resta del mercato del lavoro si sta svolgendo una partita di calcio assurda. In una partita di calcio se ci fossero 11 giocatori da una parte e 220 giocatori dall’altra non diremmo che il match si svolge secondo le leggi della concorrenza e che vinca il migliore. La proporzione che per 1 posto di lavoro in Ticino ci sia 1 ticinese e 20 lombardi disposti a lavorare fino a 1/3 del salario è realtà e la stessa dell’esempio della partita. Una volta chi voleva assumere uno straniero doveva prima chiedere il permesso di lavoro e poi sottoscrivere il contratto, oggi (da dopo i bilaterali) ci vuole un contratto di lavoro sottoscritto per ottenere il permesso di lavoro; non è una piccola differenza nella dinamica della domanda e dell’offerta. Che dire poi degli effetti perversi dello stato sociale e dei suoi soldi, dove è ormai evidente che quel freno naturale a non oltrepassare certi limiti non scritti del vivere correttamente e solidarmente in una comunità sono saltati. Per troppi andare a timbrare e incassare la disoccupazione è cosa normale e dovuta (hanno diritto anche alle vacanze!) come rispettivamente per parecchi imprenditori licenziare è diventato troppo banale, comodo e vantaggioso. Da ultimo diciamocelo. Dal 2004, una certa economia ha fallito nel gestire la sua grande libertà, ma una certa politica ha altrettanto fallito nel non prevederne e minimizzarne i risvolti negativi.

Il Ticino della globalizzazione non è vaccinato contro la crisi e le sue derive estremiste, come non è immune alle politiche sbagliate di Berna. Negli anni della grande depressione americana fu coniato il concetto dell’uomo dimenticato. Si riferiva a quei cittadini che non avevano mai avuto molto e che in più stavano perdendo anche quel poco: il lavoro, la salute e gli affetti. Oggi lo stesso concetto di cittadino dimenticato lo utilizzerei per quelle persone che in Ticino si alzano ogni mattina per lavorare, che a fatica ma con orgoglio tengono in piedi la loro famiglia, che pagano fino all’ultimo centesimo le imposte, quegli imprenditori che creano lavoro per sé e per gli altri, tutti quelli che dallo Stato non beccano neanche un centesimo di sussidio. Sono moltissimi e dimenticati. Il cittadino dimenticato, in forma aggiornata, merita protezione politica ma anche una speranza che consiste nel rilancio dell’economia, cioè una politica economica seria che punti di nuovo sulla crescita e non sul declino controllato, e la barbara spartizione di quel che resta. Per questo ci vuole un nuovo patto di Paese: l’economia da sola non basta e lo Stato da solo non può farcela. Dobbiamo fare qualche cosa. Di mezzo c’è una vastissima categoria di cittadini, famiglie, lavoratori salariati, piccoli proprietari, artigiani, commercianti vari, albergatori, imprenditori di cui lo Stato non si occupa, non hanno diritto ai sussidi o agli aiuti pubblici, non si lamentano, non manifestano e non hanno lobby; per questo ci si dimentica facilmente di loro; salvo chiedergli di lavorare, produrre, pagare, crescere i figli e ubbidire alle leggi, subire le diseconomie dei mercati dopati. Sono loro a tenere assieme e mandare avanti grazie alle loro vite la comunità.

Si dice che le statistiche razionali “scientifiche” vengono sfruttate per fini politici, non può essere altrimenti visto che ai numeri si può far dire ciò che si vuole; proviamo a vedere invece se alcune delle affermazioni irrazionali “istintive” di cui sopra possono produrre statistiche e poi da esse, se qualcuno lo vorrà, alcune azioni concrete.

Sergio Morisoli, granconsigliere e presidente di Area Liberale