Massimo Bernardi è uno scrittore che riesce a compiere ogni volta un viaggio tra livelli differenti della società, dell’umanità, dell’Arte e della Storia, regalandolo ai suoi lettori. Tre libri alle spalle, un romanzo in uscita. La Redazione di Ticinolive lo ha intervistato.

Dott. Massimo Bernardi scrittore, fotografo, laureato in biologia… quale ritiene che sia l’epiteto professionale che le si addice di più?
Senza dubbio scrittore. Anche se ho fatto studi di tipo scientifico la mia vera vocazione è sempre stata per la letteratura. Fin da bambino scrivevo storie a fumetti molto fantasiose, poi sono arrivati i primi racconti, i diari, le poesie. Il mio primo libro, un giallo, risale all’età di 13 anni. Ogni esperienza significativa della mia vita, dagli anni di scuola fino ai vari lavori che ho svolto, dalle vacanze estive al servizio civile, ho sempre avuto il bisogno di elaborarla in forma scritta, nei modi più diversi: racconti, reportage, parodie, sceneggiature. La fotografia è venuta dopo ed è stato un processo di scoperta creativa che, al pari dello scrivere, mi ha condotto dalla realtà verso l’immaginario. Spesso le fotografie e i testi si integrano, si completano, tanto che nelle mie ultime mostre ho sempre cercato di costruire delle brevi storie per immagini.

massimo bernardi

Massimo Bernardi, classe ’70, scrittore e blogger.

Da Modena (sua città natale N.D.R) all’intera Val Padana, sino alla Storia, passando per l’umanità. I suoi viaggi sono un unicum col suo scrivere, col suo indagare il Mondo, oppure specchio di una realtà irraggiungibile?
La mia scrittura nasce spesso dal viaggio, inteso in senso lato. I libri che ho pubblicato sono molto diversi ma in fondo sono tutti dei viaggi, reali o immaginari. Non c’è bisogno di andare tanto lontano: anche dietro l’angolo, nel proprio territorio, ci sono tanti luoghi, strade, monumenti, paesaggi e storie vissute che meritano di essere scoperte. Viaggiare è sempre un arricchimento dello spirito, un uscire dai propri ristretti confini, anche mentali, per mettersi in gioco. “Se sto fermo, non ho idee. Se parto, i pensieri arrivano e le cose accadono” ha scritto il grande viaggiatore Paolo Rumiz, una frase che ho fatto un po’ mia. Ma noi viaggiamo anche nel tempo e nello spazio attraverso le trame dei libri, le scene dei film, la contemplazione delle opere d’arte, le suggestioni della musica. Potenzialmente possiamo arrivare ovunque ci porti l’immaginazione.

Fotografo e scrittore, indaga l’Arte nelle sue due forme fondamentali, la figura e la scrittura. Cosa pensa dunque della contemporaneità? Ha abolito il bello, nelle sue più variegate forme, il bello scrivere, il bello stile, oppure lo ha soltanto reinterpretato?
Penso che la contemporaneità abbia reinterpretato il bello secondo nuovi canoni. Oggi molta dell’arte concettuale appare come una provocazione, un pugno nello stomaco, ma ricordiamo che già Duchamp e i dadaisti avevano fatto la stessa cosa cento anni fa, come reazione alla follia del primo conflitto mondiale. Il punto è che la contemporaneità è complessa, multiforme, contaminata, e spesso l’arte riflette anche lo squallore, il disordine e l’assurdo che stiamo vivendo. Oggi la bellezza è un canone estetico relativo, va contestualizzata, va cercata anche dove apparentemente non c’è, o anche ricreata artificialmente. Una foto può anche essere rielaborata con programmi digitali che la stravolgono, non importa. L’importante è che susciti un’emozione, che ci sia dietro un’idea creativa.

Si potrà tornare a quell’ideale di bello, che l’Ottocento, morendo, non ha trasmesso al Novecento?
Non credo. L’Ottocento è un periodo storico che ho sempre amato, ma i suoi ideali oggi appaiono quanto mai lontani. Intendo dire che quegli slanci romantici sfociati poi nel simbolismo e nel decadentismo, la ricerca dello spirituale e del soprannaturale in contrasto con la razionalità non sembrano appartenere al nostro tempo, così preso dalla tecnologia e dai consumi. Il Novecento ha spazzato via tutto, annegando le ultime danze della Belle Époque nel sangue della Grande Guerra con la morte definitiva del bello ottocentesco e aprendo nuovi scenari completamente diversi. Tuttavia i corsi e ricorsi storici ci hanno portato a rivalutare e a riscoprire anche il XIX secolo, almeno nelle forme: le mostre di arte impressionista, le rievocazioni storiche delle battaglie risorgimentali e altri eventi simili fanno il tutto esaurito. Perfino quel fenomeno che prende il nome di “steampunk” -inizialmente solo letterario ma ora anche di costume- non è che una rielaborazione in chiave fantastica della cultura e delle atmosfere ottocentesche, rivelando se non altro una nostalgia di fondo per quell’epoca.

Ci parli del suo scrivere. Come definirebbe il suo stile? C’è un letterato “del canone” a cui si riallaccia? Se sì (ma anche altrimenti) quale secolo preferisce della Letteratura?
Non saprei definire con esattezza il mio stile. Scrivo cose abbastanza diverse in stili diversi. Potrei individuare almeno due modi di scrivere: uno più diretto, colloquiale, a tratti ironico, di taglio quasi giornalistico come nel libro “Letturista per caso”. L’altro è più complesso, onirico, barocco e ridondante, per certi aspetti simile allo “stream of consciousness” dell’Ulysses di James Joyce: una scrittura che sgorga direttamente dalla musica che sto ascoltando in quel momento in forma di libere associazioni mentali. Sicuramente sono debitore a Dino Buzzati, uno scrittore che ho molto amato e che ha influenzato non solo il mio stile, ma anche le tematiche dei miei racconti. In generale preferisco la letteratura contemporanea italiana ed europea, mentre sono un po’ refrattario a quella d’oltreoceano che trovo distante dalla mia sensibilità (con le dovute eccezioni, come ad esempio Philip K. Dick). Comunque leggo cose molte diverse: dai classici alla letteratura di genere, dai saggi ai libri di viaggio, dalla poesia al teatro.

Sul suo blog ha scritto che, tra i suoi variegati interessi, compare anche l’archeologia industriale. A cosa si riferisce? Come mai questo suo interesse?
Mi riferisco a quell’insieme di manufatti, vecchi opifici come mulini, filande e centrali elettriche, e infrastrutture dismesse come stazioni, binari ferroviari e aree portuali che testimoniano il passato industriale di un territorio, e che rappresentano a tutti gli effetti opere di grande valore storico e culturale. L’archeologia industriale si è andata affermando dagli anni Sessanta in poi, soprattutto nel mondo anglosassone ma anche in Francia, Belgio e Germania (e in parte anche da noi), prima soltanto come studio di nicchia, poi via via come potenziale opportunità turistica e di rilancio dei territori. In Italia abbiamo esempi di grande fascino, come la Via della Lana nel piemontese, il villaggio operaio di Crespi d’Adda o i lanifici di Schio, che meritano di essere valorizzati. Trovo che molte di queste opere, realizzate con i canoni estetici di metà Ottocento o primi del Novecento, non abbiano nulla da invidiare a chiese e musei, e peraltro sono spesso inseriti in contesti ambientali meravigliosi come montagne, fiumi e cascate.

Cosa pensa del decadentismo novecentesco? Le piace?
Il decadentismo mi ha sempre affascinato, fin dai tempi del liceo. Ho sempre cercato di evadere dalla razionalità per rifugiarmi in un altrove diverso, che sentivo più mio: la poesia, la spiritualità, il mistero, l’inconscio, il lato nascosto della luna. Tutti aspetti che il decadentismo ha esaltato, così come avevano fatto in passato il barocco e il romanticismo e in seguito il surrealismo. Da ragazzo ero rapito dai racconti del terrore di Edgar Allan Poe, che del decadentismo si può considerare un precursore. Poi sono arrivati i versi di D’Annunzio, Baudelaire, Rimbaud, Apollinaire, dei poeti crepuscolari. E ho interiorizzato e fatto mia anche l’arte decadente nelle sue varie declinazioni, dai preraffaelliti ai simbolisti fino a Munch e Klimt, come forse emerge anche dal mio modo di creare fotografie cupe e contrastate, elaborate e quasi pittoriche.

Nella presentazione del suo romanzo Appuntamento alla Fortezza parla di analogie con Dino Buzzati. Cosa pensa dunque dei poeti crepuscolari, di quel mondo che assiste alla sua stessa fine, al suo stesso tramonto?
Sento una certa affinità con i poeti crepuscolari, soprattutto per quel loro tono dimesso, quel rifuggire dalle luci dei riflettori per indagare l’intimità e il privato, il silenzio delle stanze in penombra, la quotidianità fatta di piccole cose. Loro furono in qualche modo anche controcorrente, anticiparono la fine di un’epoca mentre ancora la cultura dominante esaltava il progresso tecnologico e le invenzioni che sembravano non avere limiti.

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Alcune suoi articoli sul suo blog mi hanno fatto venire in mente Gozzano, Signorina Felicita. Contraddirebbe questo paragone, oppure lo confermerebbe?
Lo confermerei, proprio in virtù di quello che abbiamo detto prima. Magari inconsciamente, ma quello che scriviamo riflette sempre le nostre letture, le affinità, gli stati d’animo. Mi ritrovo abbastanza nella malinconia di Gozzano, in quel suo sguardo riflessivo sulle cose, sugli oggetti, nella contemplazione del paesaggio, nelle sue riflessioni sul tempo perduto. Anche se è passato un secolo e viviamo in contesti molto diversi, credo di avere una sensibilità non lontana dalla sua.

Il suo libro Letturista per caso è ispirato a una sua attività lavorativa?
Letturista per caso nasce proprio dal mio lavoro. Leggendo i contatori di acqua e gas in giro per l’Emilia Romagna ho sentito il bisogno di raccontare questa esperienza davvero atipica. Il mio è un lavoro un po’ strano e all’apparenza insignificante, ma per una persona curiosa come me è anche una grande opportunità per conoscere a fondo il territorio, le frazioni più sperdute e le tante storie della gente comune che ci vive. Ogni giorno entro nelle case delle persone, quasi sempre anziani. Entro a fa parte del loro vissuto, degli oggetti quotidiani, delle fotografie appese al muro che raccontano le loro vite. Poi capita che ti offrano un caffè, un piccolo pretesto per parlare un po’ con me e sentirsi meno soli. Il libro quindi è una specie di reportage di viaggio nella provincia emiliana, ricco di aneddoti, curiosità e riflessioni. Uno spaccato della vita quotidiana in provincia, quella che non trova spazio sui giornali. Ma anche un po’ un saggio sul paesaggio emiliano e sulla storia dei luoghi. Con un finale a sorpresa.

COP STRETTA

Un altro suo libro, Onjrica, è invece strettamente legato alla vaghezza del sogno. Ce ne parla?
Onjrica è stato il primo libro che ho pubblicato, nell’ormai lontano 2001. È un testo sperimentale, coraggioso, e devo ammettere di non facile lettura. Si tratta infatti di un grande viaggio surreale scritto quasi interamente di notte con quello stile a “flusso di coscienza” di cui parlavo prima, seguendo le suggestioni dei brani musicali. Le immagini si susseguono una dopo l’altra senza alcuna logica, con un linguaggio visionario che è forse più vicino alla poesia che alla prosa. Qualcuno l’ha paragonato a un lungo trip di acidi allucinogeni, e questo accostamento con la cultura hippy anni Sessanta non mi dispiace, anche se la droga nel mio caso è stata solo la musica. In Onjrica c’è anche molta ironia nell’accostare l’alto con il basso, il sublime con il triviale, l’armonia con il caos. È un libro intenso e ridondante, da leggere a piccole dosi.

onirica

A breve uscirà un suo nuovo libro, ci può anticipare qualcosa a riguardo? Sarà diverso dalla linea dei precedenti?
Mandala, come indica il sottotitolo “Il romanzo che il vento soffia via”, è un vero e proprio romanzo. Posso dire che con i libri precedenti ha in comune il tema del viaggio, anche se sviluppato in un altro modo: non più il reportage quasi giornalistico di Letturista per caso, e nemmeno il sogno allucinato senza capo né coda di Onjrica, ma un viaggio metaforico dove Dario, il protagonista quarantenne, un uomo senza qualità dei nostri giorni, ha perso la bussola della realtà. Un giorno, mentre gioca a un videogame, gli appare sullo schermo una strana frase che riguarda la sua vita, e da allora cominciano ad accadergli in rapida successione cose sempre più assurde: rivivere dentro ai suoi ricordi, ritrovarsi tra le pagine dei libri che ha letto o tra le scene dei film che ha visto, incontrare personaggi misteriosi. Il suo analista paragona queste visioni ai “mandala”, i disegni tibetani fatti di sabbia che un colpo di vento soffia via distruggendoli in un istante. È una storia apparentemente bizzarra e surreale, ma in realtà è una metafora sul senso dell’esistenza, e apre un ventaglio di riflessioni spirituali e filosofiche che attingono molto dalla cultura orientale. In realtà, oltre che a fare riflettere, spero che i lettori lo trovino anche divertente. Io mi sono divertito molto, a scriverlo.

Per concludere, un messaggio da lanciare ai giovani che ancora credono e a coloro che, nonostante le non poche difficoltà, sognano, un giorno, di scrivere?
Se amate scrivere, fatelo senza porvi problemi. Scrivere dovrebbe essere innanzitutto un’esigenza interiore a cui dare libero sfogo. Se poi si aspira alla visibilità, a essere pubblicati, il mio consiglio è di valutare bene e con calma le tante proposte editoriali che si trovano on line, senza l’ansia di arrivare subito a un risultato. Credo che sia importante non rimanere isolati ma cercare altri scrittori per conoscersi e confrontarsi, quindi visitare blog, forum, riviste virtuali e quant’altro. Senza dubbio un blog è un mezzo per far arrivare i propri scritti a molte più persone rispetto ai soli amici e parenti. Ma ancora meglio è conoscere altri scrittori dal vero, frequentarli e magari provare a scrivere insieme. Una corso di scrittura creativa è un’ottima strada per “fare gruppo” con persone che hanno la tua stessa passione, e da lì possono nascere amicizie importanti, serate di cultura e tante buone letture.

Intervista a cura di Chantal Fantuzzi