Sacco di Roma

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Se ne parla spesso, del relativismo culturale. Ma cosa significa, esattamente? E’ la moda dell’epoca, certo. Più o meno tutti gli pseudo acculturati usufruiscono del termine, per portare avanti speciose articolazioni di loro discorsi. Per molti è la contestualizzazione. ma non è così. Eccone un “Pensiero del Giorno”, a riguardo.  

Il relativismo culturale è l’autodistruzione di un popolo. Come parteggiare per Annibale anziché per Scipione, per i Borgognoni anziché per Giovanna d’Arco, per il Saladino anziché per Riccardo Cuor di Leone, per Solimano contro Marcantonio Bragadin.
Il relativismo è l’andar contro la propria storia, senza la quale, oggi, non avremmo ciò che abbiamo e non saremmo ciò che siamo, in nome di un acefalo livellamento senza nervi né spirito vitale.
E non è affatto il sapere contestualizzare (es. Il Barbarossa fu sconfitto al Nord, in quanto patria dell’autodeterminazione, che sarebbe poi evoluto in Signorie; ma acclamato a Roma patria dell’ottica imperialista della Renovatio Imperii).
Il relativismo, (quello che considera le Crociate un’invasione anziché una difesa; Poitiers e Lepanto delle scaramucce, la Vandea non un genocidio ma un orrore necessario) figlio della globalizzazione, mira a creare una pacifica quanto amorfa sottomissione all’altro, e a privare dell’anima il corpo del nostro passato.
Chi non difende il proprio passato, perde il proprio presente. Chi accetta la visione del nemico, in nome della pace, si sottomette a questi.
“Chi vede entrambi i lati di una questione, é perché non riesce a vederne nessuno dei due” disse Oscar Wilde.