Alle ore 15,00 del 16 gennaio 1969 il manovratore Jaroslav Spirek, la mano  saldamente appoggiata sulla leva dei comandi, sostava col proprio tram  alla fermata di Piazza Venceslao in attesa che la piccola folla di operai e impiegati finisse di salire. Improvvisamente ebbe l’impressione che un’automobile  in sosta sotto la statua del Re prendesse fuoco; alte fiamme arancioni, un fumo nero e denso, si levarono da una parte imprecisata del monumento. Poi la cosa si mise a correre in direzione del marciapiede, abbattendosi di fronte a un negozio di alimentari. Jaroslav scese precipitosamente dalla vettura, si tolse la pesante giacca di pelle, gettandola e pestandola addosso , con tutte le sue forze, a quell’incredibile torcia umana.

Dal negozio uscì una commessa gridando verso Spirek: “aiuto, chiamate un’ambulanza!”. Entrambi si chinarono  sul corpo disteso per terra; si trattava di un giovane  dall’apparente età di vent’anni. Questi li fissò con occhi limpidi e fermi  riuscendo appena a mormorare: “ Ho fatto tutto da solo; la borsa, aprite la borsa, contiene una lettera importante”. In pochi minuti  il centro di Praga divenne una bolgia impraticabile; la notizia si diffuse come il lampo, di bocca in bocca, di cuore in cuore. Le sirene delle ambulanze, della polizia, dei vigili del  fuoco squarciavano l’aria. La piazza fu chiusa , il monumento di San Venceslao presidiato da imponenti forze dell’ordine. In serata venne diffuso il contenuto della lettera trovata nella borsa del giovane. Essa diceva: “ Considerato che i nostri due popoli  si trovano sull’orlo della disperazione, abbiamo deciso di esprimere la nostra protesta e di svegliare i cittadini del nostro Paese  nel seguente modo. Il nostro gruppo è formato di volontari, i quali  sono decisi a bruciarsi vivi per la causa. Io ho avuto l’onore di essere estratto a sorte per primo, di avere così il diritto di scrivere la prima lettera e di essere la prima torcia . Le nostre richieste sono : immediata abolizione della censura, divieto di distribuzione del giornale Zpravy, il foglio delle truppe sovietiche  d’occupazione. Se le nostre richieste non saranno accolte  entro cinque giorni, cioè entro il 21 gennaio 1969, e se il popolo non esprimerà il proprio appoggio con uno sciopero illimitato, altre torce prenderanno fuoco. Non dimenticate  che in agosto, nella politica internazionale, si è aperto un vasto spazio per la Cecoslovacchia. Approfittiamone. Firmato: la torcia n.1”.

L’effetto fu enorme. Il Governo, allarmatissimo, convocò il presidente del Fronte Nazionale Studentesco, ordinando severe inchieste in tutte le scuole e università praghesi. Il segretario dell’Unione Scrittori, Haroslav Stifert , risvlse un appello televisivo: “Non dovete credere che non vi sia altra via d’uscita. Vi prego di non pensare , nella disperazione  del momento, che i nostri problemi possano essere risolti immediatamente. Voi avete il diritto di fare quello che più vi piace di voi stessi, ma se non volete  che ci uccidiamo,  non uccidetevi”. Per tutta risposta gli studenti di Filosofia emanarono una dichiarazione  lapidaria: “ L’Unione Sovietica ha aggiunto un altro nome all’elenco delle proprie vittime. I leader cecoslovacchi hanno tradito l’ideale in nome del realismo politico”. Di fronte a questo ennesimo delitto  della barbarie comunista , il mondo libero fece conoscere la propria indignazione mediante le solite note di protesta  destinate al cestino.

Tale è la cronaca di uno dei più drammatici e memorabili eventi del XX secolo. Apparentemente si trattava di una sconfitta, destinata però a trasformarsi col tempo in una splendida vittoria: gli oppressori furono cacciati, i loro simboli abbattuti  e distrutti, mentre a Jan Palach vennero dedicate strade e piazze  in tutto il Paese. All’onnipotente nomenklatura sovietica a nulla valsero, per salvarsi, gli  apparati di sicurezza, la Siberia, la tortura , i servizi segreti, l’esercito e l’arsenale atomico  più fornito del mondo. La luce di quella torcia umana divorò come fuoco purificatore il potere criminale bolscevico, ritenuto allora invincibile da tutti i benpensanti.

Lo scorso 31 gennaio, in Friuli, si è suicidato un giovane di nome Michele,  disoccupato malgrado laurea e specializzazioni, lasciando una lettera che suona come gravissimo atto d’accusa contro la società contemporanea,  non solamente in Italia ma in tutto il mondo globalizzato. A prima vista la tragedia friulana del 2017 parrebbe non aver nulla a che fare con quella praghese del 1969.  Roma, infatti, non ha subito una invasione  di carri armati stranieri, il Presidente del Consiglio  e quello della Repubblica non sono stati deportati manu militari nella capitale dell’impero, sorte toccata invece a Dubcek  e a Svoboda. Ciò può spiegare, in teoria, la sostanziale indifferenza con cui è stata accolta dalla stampa e dall’opinione pubblica la tragica morte di Michele. Non si sono viste, da noi, manifestazioni simili a quelle di Piazza Venceslao, ove  migliaia di cittadini sfidarono le forze di polizia impugnando torce incandescenti, le cui fiamme oscillavano al gelido vento della steppa, che peraltro  non aveva minimamente scoraggiato la folla. E neppure si sono uditi accorati appelli ai giovani, da parte dei membri del governo, analoghi a quelli diffusi dai dirigenti cecoslovacchi.

Al contrario, taluni intellettuali  nostrani, compresi quelli che dovrebbero esserci  più vicini, non si sono  peritati a criticare il povero giovane con accenti degni della più ottusa e repressiva educazione  di gusto ottocentesco. Fra costoro Stefano Zecchi, che in un pezzo su  il Giornale dello scorso 8 febbraio attribuisce  l’insano gesto  di Michele,  forse uno di quei ragazzi che il  Signor Poletti vorrebbe mandar fuori dai piedi, alla ingiustificata  ipervalutazione di se stesso. Scrive :

Dobbiamo credere che Michele abbia annientato la propria esistenza perché nel nostro Paese non ci sono politiche adeguate per fronteggiare la disoccupazione giovanile? Non è questo che porta al suicidio Michele, ma la sopravvalutazione delle sue qualità , qualità che non sono state usate per fronteggiare le difficoltà , le competizioni complesse, i  fallimenti inevitabili… Ogni epoca  lascia da parte qualcuno, premia altri  non usando il metro  di una giustizia oggettiva , calcolabile, ma secondo le imponderabili valutazioni della Storia. Mi sbaglierò, ma sono convinto che Michele non sia stato lasciato solo, ma sia rimasto  disorientato dal modo  in cui considerava se stesso…….Prima ancora di aiutarlo a comprendere se stesso, qualcuno avrebbe dovuto fargli comprendere la Storia. Quando non si conosce la Storia, non si conoscerà mai se stessi: s’ignora l’origine, il senso  del presente  e del futuro. E allora s’impreca contro questo mondo in cui non si può essere felici, si giustifica il proprio rancore perché ci  si ritiene vittime  del furto della felicità”.

Questo commento, lo confesso senza pentirmene, ha risvegliato in me i ricordi e le reazioni di quando, studente di Sociologia a Trento, invitavo i colleghi di destra, che neppure in quel contesto mancavano, a non farsi derubare dai marxisti di quello spirito rivoluzionario che, se correttamente indirizzato, avrebbe potuto davvero  cambiare la Storia. A tale esperienza ho pure dedicato un libro , purtroppo poco conosciuto come tutti quelli pubblicati da piccoli editori ( Ricordi e riflessioni di un sessantottino di destra, Campanotto , Udine 2010). Le espressioni di Zecchi si adattano perfettamente alla mentalità tipica del vecchio e panciuto benpensantismo borghese, che noi ragazzi dei ruggenti anni Sessanta, di destra o di sinistra che fossimo , vedevamo come il fumo negli occhi, ben consapevoli di dove ci stava conducendo il nascente establishment del Compromesso Storico , voluto dalla cupola mafiosa finanziaria globale.

E dove ci ha portato in realtà? Proprio in quella situazione che obbliga la nostra gioventù  più intelligente, seria e preparata, ad abbandonare il Paese , e nei casi estremi  ad uccidersi, privandolo  delle sue risorse  migliori  e compromettendone il futuro. Da noi, infatti, qualunque prospettiva di autorealizzazione è preclusa dal sistema criminale dominante,  che ha eletto  a proprio modus operandi quello comune  ad ogni mafia: soltanto gli appartenenti ai vari Gigli Magici possono sperare in un posto al sole, mentre tutti gli altri sono destinati ad essere inghiottiti da quella notte che non ha mattino, per dirla con le parole di Timur , il principe-padre della Turandot di Puccini. Meditiamo quindi con il dovuto rispetto e non con l’arroganza dei potenti i passaggi essenziali del testamento spirituale di Michele:

Ho cercato di essere una brava persona, ho commesso molti errori, ho fatto molti tentativi, ho cercato di darmi un senso e uno scopo usando le mie risorse, di fare del malessere un’arte. Ma le domande non finiscono mai , e io di sentirne sono stufo. Sono stufo di fare sforzi senza ottenere risultati, stufo di critiche , stufo di colloqui  di lavoro inutili, stufo di sprecare sentimenti  e desideri per l’altro genere che evidentemente non ha bisogno di me, stufo di invidiare, stufo di chiedermi cosa si prova a vincere, stufo di dover giustificare la mia esistenza senza averla determinata……… Questa realtà è sbagliata, è una dimensione dove conta la praticità  che non premia  i talenti, le alternative, sbeffeggia le ambizioni , insulta i sogni e qualunque cosa non si possa inquadrare nella cosiddetta normalità. Non la posso riconoscere mia. Lo stato generale delle cose è per me inaccettabile, non intendo  farmene carico  e penso che sia giusto che ogni tanto qualcuno ricordi a tutti che siamo liberi, che esiste l’alternativa al soffrire: smettere ……sono entrato nel mondo  da persona libera  e da persona libera ne sono uscito, perché non mi piaceva nemmeno un po’ . Basta con le ipocrisie. Non mi faccio ricattare dal fatto che è l’unico possibile: il modello unico  non funziona”.

Questa l’eredità che ci lascia, incompreso, lo Jan Palach italiano. Il dovere di noi tutti è imbracciare le torce , come fecero i praghesi, e nel nome di questa vittima innocente della nuova tirannia condurre una durissima battaglia che si concluderà non con la rovina dei pretesi bamboccioni , bensì dei farabutti che hanno obbligato  i nostri giovani a diventare tali. Verso simile traguardo ci guidi il discorso d’investitura del neo-eletto Presidente cecoslovacco Vaclav Havel  l’11 dicembre 1989, subito dopo l’implosione dell’Impero del Male :

Oggi si celebra un grande evento nella storia della nostra Patria. Nessuno, fino a pochi mesi fa, avrebbe potuto prevedere l’evolversi e il precipitare delle circostanze. Le lacrime e il sangue che hanno bagnato, nell’ultimo mezzo secolo, le sponde della Moldava e il cuore ferito, ma pur sempre vivo e glorioso della nostra amatissima Praga, non sono stati versati invano. La sofferenza di molti è   germogliata  in una magnifica  e rigogliosa stagione di speranza che prende avvio  simbolicamente nel tempo dell’Avvento, ma che sboccerà in tutta la sua bellezza nella prossima primavera, che riscatterà l’infamia di quella  di 21 anni or sono”.

Come avvenne per Jan Palach , attendiamo fiduciosi che il nome di Michele sia ricordato  nelle strade e nelle piazze di tutta Italia!

Carlo Vivaldi-Forti